Libia, fumata nera. Le elezioni presidenziali, previste per il 24 dicembre (anniversario dell’indipendenza libica dall’Italia nel 1951) non si sono tenute. La notizia, non inattesa, è l’ennesimo colpo al processo Onu che avrebbe dovuto accompagnare la Libia sulla via della riconciliazione nazionale dopo le tre guerre civili che hanno insanguinato la nostra ex colonia dal 2011 a oggi, ovvero da quando una serie di rivolte armate, appoggiate dall’intervento della Nato, hanno spodestato Muammar Gheddafi, leader della Jamahiriya dal 1969. Dopo il collasso del suo regime, la Libia è rimasta in balìa dei gruppi armati, con il riemergere di identità tribali e l’assenza di un governo percepito come legittimo almeno da una significativa maggioranza del paese.

Sulla carta, le elezioni del 24 sono state posticipate per questioni tecniche: la commissione elettorale libica ha preferito non pubblicare l’elenco dei candidati presidenziali (non lasciando dunque spazio alla campagna elettorale) per esaminare i contenziosi aperti in merito ad alcune candidature. Un secondo problema è legato al fatto che, dei circa 2,8 milioni di libici registrati per le elezioni, solo poco più della metà hanno ricevuto la scheda elettorale.

Al netto di questo, l’appuntamento elettorale, su cui tanta parte della comunità internazionale aveva puntato per un’effettiva pacificazione che superasse la precarietà della tregua d’armi in corso, è stato minato dai veti incrociati di fazioni, spinte da calcoli opportunistici, sfiducia reciproca e giochi di potere portati avanti con il sostegno di alleati internazionali in contraddizione con la roadmap Onu ufficialmente approvata da tutti.

L’origine della frattura

Per comprendere l’attuale stato delle cose in Libia bisogna risalire al 2015, quando l’Onu mediò una soluzione negoziale alla cosiddetta seconda guerra civile libica (dopo quella del 2011), che vedeva contrapposti il primo parlamento post-gheddafiano (eletto nel 2012 con sede a Tripoli, reinsediato nel 2014 da miliziani tripolini e misuratini vicini alla Fratellanza musulmana), e la Camera dei rappresentanti eletta nel 2014 (trasferitasi a Tobruk, in Cirenaica, dopo che i gruppi islamisti tripolitani avevano contestato l’elezione da cui era emersa).

Da quel momento, la Libia fu attraversata da linee di faglia territoriali, tribali e ideologiche che videro gruppi armati della Tripolitania contrapposti a quelli della Cirenaica; tribù già filo-gheddafiane contestare i gruppi tribali e le municipalità più radicali nella loro agenda politica rivoluzionaria, come Misurata, Bengasi e Nalut; e milizie islamiste scontrarsi con altre avverse all’islam politico. I confini fra questi gruppi, peraltro, rimasero sempre labili, costituendo una mappa politica a macchia di leopardo, in costante mutamento.

Al Serraj e Haftar

L’accordo mediato dall’Onu nel 2015 a Skhirat, in Marocco, partorì un governo di Accordo Nazionale (Gan), affidato a Fayez al Serraj, che avrebbe dovuto accentrare i poteri dei due governi rivali di Tripoli e Tobruk e ottenere un voto di fiducia della Camera dei rappresentanti, confermata come assemblea legittima dall’Onu. La prima parte del piano funzionò (sulla carta); la seconda no.

A boicottare l’accordo, negando a Serraj l’approvazione parlamentare e dunque la piena legittimità, furono le manovre politiche del Presidente della Camera, Aguila Saleh Issa, in combutta con il generale Khalifa Haftar, ex comandante gheddafiano autoproclamatosi campione della lotta contro i terroristi dell’Isis e di Ansar al Sharia, che proprio in quel periodo avevano stabilito una presenza significativa (alcune migliaia di jihadisti) in Cirenaica e nella Sirtica.

Nata inizialmente sotto lo stendardo anti-jihadista, l’impresa di Haftar trasformò ben presto in una personale ascesa al potere del generale, che non esitò a contrastare gruppi islamisti moderati e ad allearsi con altri (salafiti madkhalisti) in base a una logica di convenienza; a raccogliere sotto le sue bandiere gruppi di ex-gheddafiani; e a ricercare aiuti finanziari e militari all’estero (specie da parte di Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia e Arabia Saudita).

I suoi sponsor internazionali erano in parte motivati da una vicinanza ideologica, ma per lo più scommettevano su un “uomo forte” per sovvertire il governo approvato dall’Onu e sostituirlo con un leader sotto il loro controllo. A questo gruppo di paesi si aggiunse la Francia di Emmanuel Macron, nel tentativo di inserirsi in uno scacchiere di tradizionale interesse italiano. Roma, da parte sua, privilegiava rapporti con il governo “legittimo” di Tripoli, sia per lealtà nei confronti del processo Onu, sia, soprattutto, per coltivare relazioni positive con attori tripolitani dal cui placet dipendeva tanta parte del controllo dei flussi migratori dalla regione.

Il cartello di Tripoli

Quanto al Gan di Serraj, ricevette anch’esso sostegno internazionale in armi e appoggio diplomatico (specialmente da paesi vicini all’islam politico come il Qatar e la Turchia), sebbene su scala minore rispetto ai milioni di dollari e alle decine di droni e aerei che venivano consegnati ad Haftar dai suoi patroni.

I principali alleati del Gan restavano dunque le milizie delle maggiori città tripolitane, alcune delle quali costituirono il cosiddetto Cartello di Tripoli: un oligopolio di gruppi armati che controllava la capitale, era in grado di influenzare la distribuzione delle risorse nazionali attraverso i ministeri e le istituzioni economiche libiche (la Banca centrale e la National oil company, ad esempio) e che teneva il governo sotto la sua protezione e alla sua mercé. Un governo debolissimo e corrotto, da una parte; un aspirante autocrate, che opprimeva i dissidenti con torture ed esecuzioni pubbliche, dall’altra: alle soglie del 2019 la Libia sembrava dibattersi fra questi due destini, entrambi angoscianti.

Il controllo delle risorse

Su questo sfondo languiva un paese disintegrato, dove circa un sesto della popolazione era in disperato bisogno di assistenza umanitaria. Nel dicembre 2018, un rapporto della Commissione europea asseriva che la Libia «è vicina ad essere considerata uno stato fallito», la cui instabilità aveva determinato «la paralisi di molti settori della vita pubblica e il conseguente collasso di servizi di base (sanità, educazione, giustizia)».

La Libia era alla posizione 170 su 178 paesi nella scala di Transparency International sul livello di corruzione percepita, mentre l’inflazione schizzava al 28,5 per cento, accompagnata dall’esplosione del mercato nero, del contrabbando di beni, droga e armi, e della tratta di esseri umani. Anche la produzione di gas e petrolio, su cui i libici contavano per garantire la sopravvivenza dell’economia, viveva di fluttuazioni imprevedibili legate alle escalation militari.

Fra il 2016 e il 2018, la mezzaluna petrolifera (il bacino della Sirtica) venne occupata dall’esercito di Haftar. Il generale aveva dunque acquisito il controllo della maggior parte delle risorse naturali libiche, ma non era in grado di approfittarne come avrebbe voluto, poiché i proventi di gas e petrolio arrivano a Tripoli e sono distribuiti dalla capitale.

Le autorità della Cirenaica fecero perciò ricorso a vari metodi per alimentare la propria espansione militare nel resto del paese: dal contrabbando di petrolio alla costruzione di una banca cirenaica con sede a Baida, all’ulteriore indebitamento nei confronti di patroni esteri come l’Arabia Saudita, all’immissione sul mercato libico di valuta stampata in Russia (con le conseguenze sulle finanze nazionali che si possono immaginare).

L’Unione europea impotente

Il 24 dicembre la celebrazione per i 70 anni di indipendenza libica (AP Photo/Yousef Murad)

Nell’autunno 2018, due summit internazionali sulla Libia, a Parigi e Palermo, offrirono un’apparente via d’uscita alla spirale d’ingovernabilità nel paese: i principali protagonisti, con i loro alleati internazionali, si impegnarono a promuovere una soluzione politica, annunciando una Conferenza nazionale libica per il 14 aprile 2019 incaricata di stabilire un’agenda per nuove elezioni.

Ma fra gennaio e marzo 2019 Haftar lanciò una serie di incursioni armate nel Fezzan, la regione meridionale della Libia, assumendo il controllo della capitale Sebha e di altre città chiave, cooptando alleati fra le tribù già filo-gheddafiane della regione e minacciando di puntare su Tripoli. Alle (poche) voci di protesta che levavano nell’arena internazionale, Haftar rispose con sorprendente schiettezza che la Libia non era pronta per la democrazia, e che non avrebbe consentito agli «amici dei terroristi» di restare ancora a lungo a Tripoli.

I consessi internazionali più coinvolti nella stabilizzazione libica, l’Onu e l’Unione europea, si rivelarono impotenti: nessun accordo, fra quelli siglati negli anni precedenti, prevedeva chiare misure di monitoraggio della sua implementazione, né automatiche misure punitive sotto egida Onu per chi avesse violato gli impegni e scatenato altri scontri armati.

L’Unione europea fece ricorso a sanzioni, ma contro un numero limitato di individui, in genere di secondo piano o politicamente in declino, come Khalifa Ghwell, ex leader del defunto governo tripolino rivale di Tobruk, o Salah Badi, capo miliziano misuratino sconfitto dalle milizie del Cartello di Tripoli in una delle tante piccole guerre per il controllo della capitale, o Aguila Saleh, alleato e protettore politico di Haftar.

Né Haftar, né i suoi comandanti militari, i suoi alleati tribali, o i capi delle milizie del Cartello, sono stati finora perseguiti per le loro azioni criminose, il traffico di armi, di esseri umani e petrolio in cui erano coinvolti, o per le continue escalation militari. Complice il ripiegamento americano, l’Europa ha assistito attonita (e distratta dall’emergenza migratoria) all’ennesima tragedia libica: la tanto attesa e temuta offensiva di Haftar per prendere la Tripolitania, ultimo lembo di Libia che ancora gli resisteva, scatenata il 4 aprile 2019.

L’intervento di Erdogan

L’attacco, che inaugurò la terza guerra civile libica, venne lanciato mentre a Tripoli era in visita il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: un ulteriore affronto all’autorità dell’Onu. Con la comunità internazionale ancora una volta silente, contro Haftar si mobilitava una coalizione dei principali attori tripolitani, compresi gli antichi rivali del 2014 (Zintan e Misurata), per respingere quella che vedevano come «un’invasione cirenaica e una contro-rivoluzione guidata da un nuovo Gheddafi».

Ormai privo di fiducia nei consessi internazionali, il Gan lanciò appelli a Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Tunisia, Algeria e Turchia per la fornitura di armi. Solo la Turchia accettò, mentre il governo di Giuseppe Conte, probabilmente immaginando l’ascesa di Haftar irresistibile, inaugurava una tardiva e fragile «politica dell’equidistanza», sgretolando buona parte delle alleanze tripolitane di Roma senza sostituirle con un’intesa preferenziale con Haftar, il quale godeva già di sponsor internazionali di lunga data assai più decisi nell’offrire il loro sostegno.

Agli aiuti turchi a Tripoli Haftar rispose chiedendo e ottenendo l’invio di 2.000 mercenari del gruppo Wagner, paramilitari russi considerati uno degli strumenti della guerra “ibrida” del Cremlino. A sua volta, il Gan invocò ulteriori aiuti a Erdogan, in cambio di un trattato che ridefiniva le zone economiche esclusive di Libia e Turchia nel Mediterraneo orientale e consentiva ad Ankara di avanzare diritti di esplorazione e trivellazione nelle acque a est di Creta, rivendicate dalla Grecia.

Fra le inutili proteste della comunità internazionale, Erdogan trasferì in Libia migliaia di mercenari siriani (alcuni sospetti di essere legati all’Isis), batterie antiaeree, droni, forze speciali e consiglieri militari: tutto in aperta violazione dell’embargo Onu sull’invio di armi in Libia, che gli attori internazionali coinvolti nella crisi (Turchia e Russia comprese) si erano impegnate a rispettare durante un summit a Berlino il 19 gennaio 2020. Ma solo a parole.

Un conflitto internazionale

A marzo, l’Unione europea lanciò un’operazione navale, Irini, sotto comando italiano, per monitorare il rispetto dell’embargo, ma senza dotarla di un mandato che prevedesse l’uso della forza: in diverse occasioni, dunque, navi turche sospettate di trasportare armi raggiunsero Tripoli grazie alla scorta di unità militari di Ankara che minacciavano di aprire il fuoco sulle navi europee. La crisi metteva a nudo ancora una volta la debolezza dei meccanismi di governance internazionale al cospetto di attori aggressivi e determinati.

Coi rinforzi turchi, fra aprile e giugno 2020, il Gan scatenò una pesante controffensiva ricacciando indietro le forze di Haftar fino all’asse Jufra-Sirte, definita «linea rossa» dall’Egitto che minacciava di entrare a sua volta in Libia per salvare Haftar dal completo disastro.

Sconfitto sul campo, il generale cirenaico bloccò la produzione petrolifera libica, provocando un crollo del Pil nazionale del 40,9 per cento nel 2020. In un anno e mezzo, la crisi libica si era trasformata da guerra civile e per procura a un conflitto internazionale con forze e mezzi militari di potenze straniere schierati da ambo le parti, causando almeno 3mila vittime (di cui circa 500 civili) e oltre un milione di sfollati, compresi 700mila migranti bloccati nel paese.

Una scommessa sbagliata

Il 23 ottobre 2020 venne raggiunto un precario cessate il fuoco, che prevedeva un ampio pacchetto di iniziative, fra cui la ripresa della produzione petrolifera, una distribuzione equa dei proventi fra le tre regioni del paese, la demilitarizzazione del fronte di Sirte, la progressiva smobilitazione delle milizie, la partenza dei mercenari di entrambe le coalizioni e la ripresa di un processo politico.

In un clima di incertezza surreale, nel febbraio 2021, un forum di dialogo politico libico nominava Abdel Hamid Mohammed Dbeibah, uomo d’affari misuratino, primo ministro ad interim di un governo di unità nazionale col compito di implementare l’accordo e condurre il paese a nuove elezioni entro il 24 dicembre.

Sono rimasti tagliati fuori i due più accreditati esponenti politici delle coalizioni libiche contrapposte, Fathi Bashagha, ministro dell’interno del Gan, e Saleh. Quest’ultimo aveva cercato di smarcarsi da Haftar (screditato dopo la sconfitta), proponendosi come un rappresentante cirenaico più accettabile, al punto che l’Unione europea aveva rimosso le sanzioni a suo danno, scommettendo sulla sua elezione. A prevalere (con pesanti accuse di compravendita di voti) fu invece Dbeibah, un uomo considerato da molti filo-turco. Ma anche Haftar aveva motivo di gioire, poiché la sconfitta del suo ex alleato Saleh lo rimetteva in sella nella lotta per il potere in Cirenaica.

Il controllo di Russia e Turchia

Mentre il governo Dbeibah concentrava i propri sforzi sul contenimento del Covid-19 e sulla distribuzione di sussidi ai giovani, glissando su questioni politicamente più spinose, le due principali potenze che avevano preso in pugno la gestione diplomatico-militare della crisi, la Turchia e la Russia, raccoglievano i loro frutti.

Ankara riceveva da Tripoli il permesso di mantenere il controllo della base aerea di al-Watiya e l’uso del porto di Misurata, aprendo trattative con Dbeibah per ottenere avamposti militari ad al Qardabiya, nella Sirtica, da dove si controlla la mezzaluna petrolifera. Accordi in àmbito militare, commerciale, energetico e nel campo delle infrastrutture venivano discussi in una serie di incontri fra membri del governo libico ed esponenti turchi, fra cui il capo dell’intelligence Hakan Fidan e il ministro delle finanze Beyrat Albayrak.

Ad essi si aggiunsero programmi di addestramento per le forze speciali libiche affidati a istruttori turchi. Come ha dichiarato un nostro diplomatico, «la Turchia è in Tripolitania per restarci». Quanto alla Russia, avviava a sua volta la costruzione di una serie di infrastrutture militari in Cirenaica, fortificando in modo massiccio la linea Jufra-Sirte.

Otteneva importanti contratti per future infrastrutture nella regione, e consolidava la sua influenza anche attraverso iniziative diplomatiche come la consegna di migliaia di vaccini Sputnik anti Covid. «Russi e turchi hanno scalzato tanto noi quanto gli europei», ha ammesso una fonte di Washington, alla quale ha fatto eco un alto ufficiale Nato affermando che «queste due potenze, Russia e Turchia, hanno preso il controllo del Mediterraneo orientale».

Tornare nel caos

Anche per garantire un veloce ricambio politico in Libia, le potenze europee e gli Stati Uniti hanno fatto fronte comune (per la prima volta dopo anni) nel chiedere a gran voce il rispetto della scadenza elettorale. Ma la tregua d’armi in Libia è frutto del congelamento di una spaccatura di fatto in cui troppi attori, tanto libici quanto internazionali, hanno interesse a mantenere lo status quo: da Haftar alle milizie che hanno beneficiato dell’economia di guerra e dell’influenza che il potere delle armi dà loro in campo politico, a Russia e Turchia, desiderose di mantenere la presa sulle proprie aree di influenza.

Queste ultime potenze, oltretutto, hanno ancora migliaia di mercenari sul terreno (circa 20mila, stando a fonti Onu), in grado di influenzare l’esito del voto o di impedirlo del tutto. Fin dall’estate, dunque, la roadmap Onu ha subìto una serie di colpi sempre più gravi: dagli scontri di Sebha causati da Haftar nel Fezzan il 4 settembre e il 28 ottobre, alla lunga polemica sulle candidature alla presidenza dello stesso Haftar e di Saif al-islam Gheddafi, figlio del vecchio raìs, al voltafaccia di Dbeibah, che si era impegnato a non candidarsi e si è rimangiato la parola, al voto di sfiducia verso Dbeibah da parte della Camera dei rappresentanti, il 21 settembre, alla ribellione delle milizie del Cartello, che la notte del 15 dicembre hanno circondato i palazzi governativi della capitale per opporsi alla sostituzione del generale Abdul Basit Marwan con Abdel Qader Mansour quale comandante del distretto militare tripolino.

I motivi del fallimento

In questo contesto, le giustificazioni tecniche per il rinvio del voto del 24 sono puramente strumentali: la verità, come ricorda Michela Mercuri, è che non si possono tenere le elezioni per stabilizzare un paese; andrebbe prima stabilizzato il paese, per poi affidare alle elezioni la scelta della sua leadership.

Ed è in questo che l’Onu (e l’Unione europea) hanno sempre tenuto un profilo troppo basso per fare la differenza. In uno scenario frammentato, caotico e con potenze regionali e globali impegnate prima in una guerra per procura, poi con mercenari sul terreno, i consessi internazionali hanno preferito non prendersi la responsabilità politica di imporre nel dibattito sulla pacificazione libica misure di stabilizzazione, meccanismi di monitoraggio e implementazione degli accordi, e efficaci ritorsioni contro i doppiogiochisti.

Hanno preferito nascondersi dietro il principio della local ownership, l’autodeterminazione libica, lasciando il paese ostaggio di pochi, e il diritto dei libici di esprimersi sul proprio futuro in balia di chi, dentro e fuori il paese, è interessato a mantenere un “gioco a somma zero” da cui ricavare enormi vantaggi.

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