Nella settimana della leggerezza sanremese, il quinto anniversario del Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia sulle politiche migratorie e di frontiera, firmato a Roma il 2 febbraio 2017, difficilmente guadagnerà clamore o celebrazioni pubbliche.

Da una parte, i “genitori” politici di quell’accordo – l’allora Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il ministro dell’Interno, Marco Minniti – sono passati ad altre funzioni e questioni.

Dall’altra, sebbene l’accordo continui a godere di un supporto trasversale, troppe sono le notizie di torture e violenze perpetrate contro donne, uomini e bambini riportati in Libia con l’aiuto dell’Italia, perché qualcuno se ne possa intestare il merito. Ma proprio perché è facile immaginarsi che i più preferiranno far passare l’anniversario sottotraccia, sembra utile soffermarsi sulla genesi di quell’accordo, sulle sue conseguenze e sulle sfide che la sua eredità ci pone.

Il Memorandum d’Intesa rappresentò lo strumento politico con cui l’Italia marcò un cambio di rotta nella gestione del fenomeno degli sbarchi di rifugiati e migranti provenienti dalle coste libiche. Con la sua firma, si puntò sull’idea che piuttosto che salvare persone in mare e sbarcarle in un luogo sicuro – come fatto, almeno a tempi alterni, tra fine 2013 e 2016 – fosse più conveniente bloccare e respingere quelle persone in Libia.

In realtà, più che di una novità si trattava di un ritorno al passato, perché già nel 2008-2010 il governo Berlusconi aveva puntato sui respingimenti marittimi verso la Libia. Ma quella politica era stata prima interrotta dal conflitto civile in Libia e dalla morte di Gheddafi, e poi demolita da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che nel 2012 aveva sancito che intercettare persone in mare e riportarle in Libia equivaleva a torturarle.

La creazione della Guardia costiera libica

Fu proprio per aggirare quella sentenza e il principio di non-respingimento che nel 2017 il governo italiano escogitò un trucco, che costituisce la spina dorsale del Memorandum: si ricostituì la Guardia costiera libica – dotandola di motovedette (italiane), di formazione (in Italia o su navi italiane), di una zona di ricerca e soccorso (delineata dalla Guardia Costiera Italiana) e di un centro di coordinamento (su una nave della Marina Italiana ormeggiata a Tripoli) – e si chiese a questa di intercettare persone in mare e riportarle in Libia, per conto dell’Italia ma non in suo nome.

Il risultato fu una riduzione netta degli sbarchi in Italia, ottenuta però scaricandone il prezzo sulle persone catturate in mare per poi essere riportate in Libia e stipate a tempo indeterminato in centri di detenzione orripilanti, sui bambini che in quei centri morivano di stenti, sulle donne seviziate e stuprate, sugli uomini che venivano torturati mentre al telefono supplicavano i parenti di vendere i propri pochi averi per pagare il riscatto.

Era, questa, una realtà che il Memorandum – che chiamava quei lager “centri di accoglienza” – fece finta di non vedere. E che la politica avrebbe provato a sotterrare, sotto le promesse vaghe di Minniti, i dinieghi plateali di Salvini o i silenzi di Lamorgese.

Dunque, un trucco per aggirare il diritto internazionale e una mano sugli occhi per non vedere ciò che sarebbe accaduto dall’altra parte del mare: in questo consisteva, a conti fatti, l’intesa.

E in questo ha consistito, da allora, la politica del governo italiano nel Mediterraneo centrale, che a prescindere da chi lo guidasse ha continuato a donare motovedette, firmare contratti per la loro manutenzione, far decollare droni per identificare barche in mare e comunicarne la posizione ai libici, programmare corsi di formazione, e da ultimo anche fornire un centro di coordinamento mobile per i guardacoste libici.

I vaghi impegni della politica italiana

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Nonostante i trucchi e tentativi di non vedere, nel corso degli anni la voce di chi l’Italia ha provato a nascondere aldilà del mare ha fatto talvolta breccia, creando imbarazzi. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è visto costretto a promettere una riforma del testo del Memorandum, mentre il parlamento si è impegnato a rivalutare l’opportunità di estendere le missioni di supporto ai guardacoste libici.

Ma sono state iniziative vacue e infruttuose, utili solo a schivare critiche e ad accompagnare la retorica “alta” di un governo che usa la sparuta presenza dell’Unhcr in Libia come foglia di fico, e che si fa bello di corridoi umanitari creati dalla società civile, anche se poi nei fatti li strozza, elargendo visti in numeri decisamente inferiori alle necessità.

Non dobbiamo stupirci, allora, se lo scorso autunno rifugiati e richiedenti asilo hanno cominciato a protestare, a Tripoli, chiedendo di essere evacuati. Hanno continuato a farlo per mesi, finché lo scorso 10 gennaio le forze libiche li hanno arrestati a centinaia e stipati nel centro di detenzione di Ain Zara.

Intanto, in centri di detenzione come quello, le violazioni continuano, perché non solo l’impunità resta prevalente, ma addirittura chi è sospettato di avere responsabilità per maltrattamenti fa carriera. Come Mohamed al-Khoja, che in precedenza dirigeva il centro di detenzione di Tariq al-Sikka, noto per violenze ed abusi, e che di recente è stato nominato alla guida del Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione illegale del governo libico. Pure fuori dai centri di detenzione, la vita di rifugiati e migranti resta in bilico, con il rischio costante di violenze, rapine, rapimenti, sfruttamento ed espulsioni sommarie.

Anche in mare, la situazione stenta a migliorare. Tant’è che lo stesso Ammiraglio Stefano Turchetto, a capo della Missione Irini, ha dovuto riconoscere – in un rapporto confidenziale rivelato dalla Associated Press la scorsa settimana – che i guardacoste libici continuano a macchiarsi di «uso eccessivo della forza» piuttosto che seguire «standard comportamentali adeguati... in linea con i diritti umani».

Il cimitero del Mediterraneo

A group thought to be migrants from Tunisia on board precarious wooden boats wait to be assisted by a team of the Spanish NGO Open Arms, around 20 miles southwest from the Italian island of Lampedusa, in Italian SAR zone, Thursday July 29, 2021. The NGO assisted more than 170 people who arrived next to the Italian island on board six different wooden dinghies, before the Italian authorities took them to land. (AP Photo/Santi Palacios)

E se le morti in mare continuano – ne sono state contate 1.553 nel 2021 – l’anno appena terminato ha segnato un record nel numero di persone riportate in Libia, ben 32.425. Numeri troppo grandi per intuirne il dolore, perché ogni donna, ogni bambino, ogni uomo trascinato indietro nei lager libici è una storia individuale, fatta innanzitutto di speranze, di umanità, di relazioni, di volontà di riscatto, prima ancora che di sofferenza.

Collettiva è invece la responsabilità – nostra – per aver contribuito a causare quel dolore. E collettiva dovrebbe essere la necessità – ora – di cambiare le cose. Perché se è vero che la Libia attraversa una fase politica ed istituzionale delicatissima, è anche vero che l’Italia può giocare un ruolo significativo nel pretendere dal governo in carica e da quello che emergerà dalle elezioni – se e quando queste avranno luogo – rispetto per le persone e i loro diritti e giustizia per le vittime dei crimini aberranti perpetrati sinora.

La politica internazionale

Piuttosto che continuare a nascondere la testa nella sabbia, il governo Draghi dovrebbe ascoltare il recente richiamo del Segretario generale delle Nazioni unite, il quale, rimarcando che la Libia non rappresenta un porto sicuro per lo sbarco di rifugiati e migranti, ha chiesto di «rivedere politiche che supportano intercettazioni in mare e il ritorno di rifugiati e migranti in Libia».

Il semestre di Presidenza francese del Consiglio europeo, appena cominciato, potrebbe portare alla riattivazione dei meccanismi di ricollocazione per persone soccorse in mare, ci cui l’Italia beneficiava finché sono stati sospesi per la pandemia. Ma i relativi negoziati dovrebbero essere usati per far partire una revisione complessiva dell’approccio europeo nel Mediterraneo centrale e in Libia.

Anche a livello nazionale, le opportunità per una riflessione non mancheranno quest’anno. Prima con le decisioni da prendere in merito alla proroga o meno delle missioni militari, comprese quelle in Libia. E poi con la scadenza del prossimo 2 Novembre, data ultima entro la quale il governo potrà ritirare la propria firma dal Memorandum, prima che questo si rinnovi automaticamente per altri tre anni.

Sono occasioni da non perdere, perché se un anniversario non ci offre niente da celebrare, forse possiamo fare in modo che sia l’ultimo.

Matteo de Bellis – Ricercatore di Amnesty International e autore di “Lontano dagli occhi: Storia di politiche migratorie e persone alla deriva tra Italia e Libia” (People, 2021)

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