Se partirà il primo governo Draghi l’ex presidente della Bce si troverà di nuovo ad affrontare i problemi che caratterizzano il capitalismo italiano. Le riforme e le privatizzazioni, di cui Draghi fu un importante protagonista negli anni Novanta, hanno portato a risultati paradossali. La parte più consistente delle grandi imprese italiane è ancora costituita da imprese quotate in borsa ma controllate dallo Stato con sostanziose partecipazioni azionarie.

Il capitalismo italiano si è caratterizzato per l’assenza di grandi imprese private a controllo manageriale e per la presenza di un nutrito gruppo di imprese controllate dallo stato che nei primi anni del dopoguerra hanno contribuito in modo notevole allo sviluppo del nostro paese. Gli anni Novanta hanno segnato un momento di forte discontinuità nella storia dell’economia italiana. In quegli anni, con la trasformazione delle nostre imprese pubbliche in società per azioni e la loro privatizzazione, si cercò di raggiungere due diversi obiettivi.

Le privatizzazioni servivano a fare cassa e, abbattendo il debito pubblico, a favorire l’entrata nell’euro. Avrebbero anche dovuto aumentare l’efficienza delle imprese pubbliche fortemente pregiudicata dalla lottizzazione delle loro cariche da parte dei partiti politici.

Ai tempi delle privatizzazioni vi era una diffusa coscienza del fatto che, anche nel caso delle grandi imprese, il settore privato del capitalismo italiano era caratterizzato dal controllo familiare e da una assenza di strutture di governo manageriali.

Per questo motivo si sviluppò un interessante dibattito sulle riforme del governo societario delle grandi imprese private che avrebbero dovuto accompagnare le privatizzazioni. Si temeva che altrimenti le privatizzazioni avrebbero contribuito a ridurre il numero, già esiguo, di grandi imprese italiane.

Erano disponibili due modelli canonici che permettevano nei paesi a capitalismo avanzato la transizione dalla gestione familiare a quella manageriale delle imprese: quelli prevalenti in Germania e negli Stati Uniti.

Il modello tedesco

Il modello tedesco è caratterizzato da un sistema di codeterminazione per le imprese che superano una certa dimensione. Il governo societario si articola in due diversi consigli di amministrazione. Un consiglio di amministrazione di indirizzo, di cui fanno parte proprietari dell’impresa e rappresentanti dei lavoratori, prende le decisioni strategiche di lungo termine dell’impresa e ha il compito di scegliere i membri del consiglio di amministrazione esecutivo composto dagli effettivi manager dell’impresa. Questo sistema permette alla famiglia proprietaria di ritirarsi nel cda di indirizzo quando l’impresa supera certe dimensioni. Il sistema difende la famiglia proprietaria da sé stessa. Un membro della famiglia che è parte del cda di indirizzo non può essere parte di quello esecutivo e può diventare parte del cda esecutivo in seguito a una scelta fatta non solo dai membri della famiglia proprietaria ma anche dai rappresentanti dei lavoratori. Questo permette di escludere dalle decisioni operative i membri meno capaci della famiglia proprietaria e di scegliere spesso dei manager professionali.

La public company

Il modello americano prevede un solo consiglio di amministrazione di cui fanno parte sia i manager esecutivi che quelli addetti a una funzione di controllo. Già nella seconda metà dell’Ottocento gli Stati Uniti disponevano di istituzioni democratiche mature consolidate dal consenso di una vasta classe di piccoli proprietari. La formazione di grandi imprese, attribuendo un crescente potere delle famiglie che le controllavano, fu vista come un pericolo per la democrazia. Il potere politico reagì con le legge antitrust del 1890 e con il Clayton Act del 1914 secondo cui il possesso di rilevanti quote azionarie in diverse società poteva portare a dei conflitti di interesse a danno dei piccoli azionisti. Negli anni Trenta F. D. Roosevelt completò l’opera rendendo difficilmente possibili i controlli piramidali delle imprese e la conseguente possibilità di controllare grandi imprese con quote modeste di capitale. Vennero così a crearsi le condizioni per la diffusione delle grandi public company americane in cui ogni azionista possiede poco capitale e il controllo è nelle mani di manager professionali.

L’Italia non aveva mai avuto dei meccanismi che rendessero possibile la transizione dal controllo familiare a quello manageriale. Le privatizzazioni imponevano quindi una riforma del sistema di governo societario prevalente nel settore privato. Un vivace dibattito su questi temi si concretizzò in una maggiore tutela degli azionisti di minoranza e nella riforma Draghi del 2003 che permise alle imprese di scegliere fra lo status quo, il sistema con doppio cda tedesco e quello con singolo cda di tipo americano.

Purtroppo la riforma Draghi lasciò il modello di capitalismo italiano sostanzialmente inalterato.

Il paradosso

Negli anni Novanta la scelta di un nuovo sistema di governo societario era molto difficile. Il modello tedesco e la stessa Germania vivevano un momento difficile.

A una attrazione politica e intellettuale per il modello americano faceva tuttavia da ostacolo il fatto che l’Italia, caratterizzata anche essa da imprese possedute da famiglie e da sindacati forti era molto più simile alla Germania che agli Stati Uniti. Una eventuale adozione del modello americano si scontrava con caratteristiche ben consolidate della economia e della società italiana. La mancata riforma del capitalismo privato e la privatizzazione delle imprese pubbliche hanno prodotto una biforcazione molto significativa. In alcune imprese lo stato ha mantenuto una quota azionaria che gli ha permesso di scegliere il management mentre in altre il controllo è passato ai privati.

Nel primo caso la combinazione fra scelta del management da parte dello Stato e controllo esercitato dal mercato azionario ha funzionato in modo soddisfacente e le imprese che hanno adottato questo sistema (Eni, Enel, Fincantieri, Leonardo ecc.) hanno raggiunto dei buoni risultati.

Nel secondo caso, il passaggio delle imprese privatizzate al controllo familiare (Telecom, Ilva e Autostrade ecc.) ha riconfermato tutti i limiti del sistema di governo della grandi imprese private italiane. Abbiamo così ottenuto un vero paradosso delle privatizzazioni: fatte per superare l’inefficienza dell’impresa pubblica hanno confermato tutti i limiti della grande impresa privata italiana. La radice di questo paradosso risiede nel fatto che se non si crea un modello alternativo di capitalismo nel settore privato, l’unico modello per fare grande impresa in Italia resta l’impresa pubblica. L’Italia non ha creato in questo periodo nuovi grandi imprese e ha perso alcune di quelle preesistenti facendo mancare quella complementarità fra piccole e medie imprese private e grandi imprese (molto spesso pubbliche) che era stata alla radice del suo successo nel primo dopoguerra. Draghi si troverà quindi di fronte a una situazione che richiede delle scelte non più rinviabili alla buona volontà delle singole imprese.

Le imprese controllate dallo Stato, quando non create per salvare imprese decotte e senza prospettive, hanno mostrato di poter dare un valido contributo alla economia italiana. Questo modello organizzativo non va usato come uno strumento di salvataggio di imprese zombie ma per rendere più produttiva l’economia italiana e colmare il suo deficit di grandi imprese. Alcune joint ventures fra le imprese controllate dallo Stato potrebbero servire a creare delle nuove grandi imprese nei settori più dinamici, quali quelli della transizione energetica e dei nuovi tipi di mobilità.

Una scelta sistemica

Quanto al settore privato è arrivato il momento di fare una scelta sistemica che tenga conto della maggiore affinità del sistema italiano con quello tedesco rispetto a quello americano. Va fatta cooperando con le parti sociali e si dovrebbe tradurre in norme e in processi, vincolanti per le grandi imprese, che diano una voce ai proprietari, ai lavoratori e ai rappresentati dei territori in cui esse si insediano. Alcune imprese italiane potrebbero così acquisire delle caratteristiche manageriali che le mettano al riparo dai limiti di una ottica familiare e da destabilizzanti cambiamenti generazionali. Si contribuirebbe così a superare quel nanismo delle imprese italiane che è stato dagli anni Novanta una delle cause del nostro declino.

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