Antonio Misurale, Andrea Savo, Antonio Moccia, Giuseppe Del Pozzo, Cosimo Liace, Pierangelo Del Re, Stefano Corciulo, Vincenzo Annicchiarico, Giovanni Corte: sono i nomi di dipendenti dell’Ilva di Taranto che l’accusa ha chiamato a testimoniare nel corso di Ambiente svenduto, il processo per il presunto disastro ambientale provocato dalla gestione dei Riva dal 1995 al 2012.

Nel corso della requisitoria fiume, che si è conclusa con la richiesta di condanne fino a 28 anni di reclusione per i principali imputati, il pubblico ministero Mariano Buccoliero li ha citati uno a uno: sarebbero stati indotti, nel timore di perdere il posto di lavoro, a partecipare in vari modi a una sistematica falsificazione dei dati, un ulteriore tassello delle attività criminose che la vecchia proprietà della famiglia Riva avrebbe orchestrato per consentire all’acciaieria di continuare a produrre, sacrificando salute e ambiente sull’altare dei profitti.

Il pm si è soffermato a lungo sulla vicenda, che ha descritto come «un sistema routinario e non episodico», per impedire che ci si accorgesse della devastante situazione dell’impianto e del disastro che provocava, nella piena consapevolezza di tutti gli indagati.

Tutto ruota intorno alla testimonianza di Antonio Misurale ([1] e [2]): dipendente Ilva dal 2003 al 2007, ha lavorato nel reparto Sae/Eco (Sicurezza Ambiente Ecologia) dove si è occupato del campionamento dei flussi gassosi convogliati, delle polveri e della caratterizzazione dei terreni.

Il caporeparto era Renzo Tommasini, il capoarea era Lanfranco Legnani, il fiduciario dei Riva per cui l’accusa ha chiesto vent’anni di reclusione, mentre a Domenico Giliberti si faceva riferimento per i campioni. Misurale ha riferito di un diverbio «molto acceso» tra Tommasini e Giliberti, in cui il primo avrebbe detto al secondo: «Voi mi dovete portare i valori così come sono, non dovete alterare nulla, quello poi spetta a me, perché quando viene l’Arpa chiama me (perché sono io a firmare i documenti)».

In un’altra occasione, in relazione al campionamento delle polveri dei filtri, Tommasini avrebbe detto: «Dovete darmi i dati precisi, perché se i valori sono a norma di legge, non c’è nulla da fare. Se invece il valore è più alto, quindi la quantità di polvere è maggiore, io mi devo regolare con il laboratorio per riportarla a norma di legge». Misurale avrebbe sentito anche Giliberti dire: «(Le rilevazioni degli inquinanti) sono un po’ più alte e a volte anche molto alte rispetto ai valori consentiti… Portatemi sempre i dati genuini, anche se sono alti non vi preoccupate, perché poi io li riporto al livello di norma». Però, ha poi aggiunto il teste «non ho mai visto di persona farlo».

Taranto, Norimberga

Del Pozzo, perito chimico che si occupava delle analisi sui metalli pesanti, ha raccontato che venivano utilizzati tre spettrometri con tecniche differenti, secondo la concentrazione da ricercare. L’operatore faceva la taratura ogni giorno, sotto la supervisione di Giliberti, applicando uno scostamento del 20 per cento che però non era previsto da nessuna parte: «Lo decideva Ilva» – ha detto il pm – «era una procedura inter nos». Liace ha riferito che a volte il campione era talmente compromesso dalla presenza di morchie, fanghi e sostanze oleose, che non era possibile procedere alle analisi. Cosa fare per alterare i dati glielo avrebbe insegnato proprio Giliberti: se i risultati non andavano bene, lo portava davanti al pc e modificava il parametro interessato.

Vincenzo Annicchiarico era addetto alle analisi chimiche del laboratorio per il Pcb e i derivati furanici: anche lui ha riferito che i campioni venivano diluiti per farli rientrare a forza nei limiti di legge, ma se il valore era molto alto ci si risparmiava la fatica e si procedeva direttamente alla sua sostituzione con campioni puliti; gli altri si buttavano via, prassi confermata da Del Re.

I superamenti riguardavano pcb, ipa e metalli pesanti. In molti casi i computer che ricevevano i dati dalle varie apparecchiature erano scollegati dal server centrale, per evitare controlli. Secondo la ricostruzione, Giliberti avrebbe ordinato falsificazioni e minacciato rappresaglie ma – ha detto il pm con un tono un po’ da processo di Norimberga – «a sua volta obbediva seguendo la scala gerarchica».

Tacere o andarsene

Misurale ha detto di essersi lamentato con Tommasini per l’attività di alterazione dei dati, ma questi gli avrebbe risposto: «Quello che succede qua dentro tu non lo devi dire a nessuno, lo devi tenere per te e ringrazia che non ci sta l’ingegner Legnani, perché saresti stato sicuramente licenziato. Non sei pagato per pensare se è giusto o no, ma per eseguire i campionamenti. Legnani è come se fosse l’ingegner Riva, lui poi va a riferire tutto. Impara una cosa, se vuoi continuare a lavorare qui: anche i muri hanno orecchie».

E ancora Tommasini, in un’altra occasione: «Se i valori che molto spesso noi riscontriamo dovessero finire all’Arpa (…), sicuramente potrebbero disporre la chiusura dello stabilimento e ce ne andremmo tutti a casa». Girolamo Archinà, responsabile relazioni esterne, presente alla conversazione, avrebbe rincarato la dose: «Qui nessuno è obbligato a stare, se uno non se la sente può in qualunque momento dare le dimissioni, senza danneggiare i propri colleghi».

Archinà ha sempre negato con decisione di avere mai incontrato Misurale neanche per sbaglio, ma che questa fosse la linea dell’azienda lo confermano diversi altri testi. L’accusa ha insistito sul punto, parlando di un clima generale di “omertà e minacce”, in cui l’orgoglio e l’onestà dei lavoratori venivano distrutti, e richiamando il precedente della palazzina Laf (laminatoio a freddo), la struttura dove i dipendenti non allineati alle direttive aziendali venivano trasferiti per non fare nulla: un caso di mobbing ai danni di 70 lavoratori per cui Emilio Riva e altri dieci imputati sono stati condannati nel 2001 con sentenza passata in giudicato (qui la sentenza di primo grado, qui quella d’appello).

Tuttavia, leggendo i verbali di udienza, viene fuori un quadro meno monolitico e coerente di quello delineato con tanta decisione dal pm nella sua requisitoria. Per esempio, il teste Moccia, che si occupava di trivellazioni e carotaggi, a Buccoliero che gli chiedeva se avesse mai conosciuto «il signor Misurale Antonio», ha risposto «Purtroppo sì». Il pm ha fatto finta di niente, ma in sede di controesame le difese si sono lanciate su quelle due parole: «Perché purtroppo?» ha chiesto l’avvocato Mariucci (difesa Legnani). E Moccia: «veniva [Misurale] e disturbava il nostro lavoro, diceva cose come “oggi sono andato a Milano”, ed era una bugia. Domani aveva la ragazza a Torino, un giorno ce l’aveva a Milano. Era un po’ strano a volte. Badava sempre a scherzare e noi lavoravamo». Quanto alla taratura di alcune apparecchiature con un margine di tolleranza del 20 per cento, in occasione del controesame del teste Corte, l’avvocato Urso ha prodotto la metodologia vigente all’epoca dei fatti: prevedeva proprio quel margine.

In generale, diversi testi sono sembrati molto più timidi in aula di quanto non siano stati durante la fase istruttoria, tanto è vero che spesso il pm ha dovuto richiamare alla loro memoria passi da quei verbali. Un atteggiamento difficilmente spiegabile con il timore di rappresaglie, visto che i Riva sono usciti di scena da oramai da quasi nove anni. Inoltre è impossibile non notare che né Tommasini né Giliberti sono imputati nel processo.

L’anello debole

Secondo le difese l’anello debole della ricostruzione accusatoria è proprio la testimonianza di Misurale, infatti hanno concentrato il fuoco su di lui. La storia inizia quando Luciano Manna ([1] e [2]), attivista di Peacelink, riceve la segnalazione che c’è un ex dipendente di Ilva pronto a rilasciare dichiarazioni esplosive su quello che succedeva nel laboratorio dell’acciaieria. Realizza la registrazione il 23 giugno 2018 e fissa un incontro tra Misurale e il pm Buccoliero che si tiene il 16 novembre.

Il controesame di Misurale è stato durissimo: in udienza Pasquale Annicchiarico, l’avvocato dei Riva, ha fatto ascoltare la parte della registrazione in cui Manna chiede a Misurale se abbia mai denunciato queste cose e lo si sente rispondere di no, come il teste ha confermato in tribunale sotto giuramento. Ma secondo le difese Misurale avrebbe mentito due volte, prima a Manna e poi alla Corte: avrebbe infatti presentato più denunce, in cui faceva riferimento agli stessi fatti, che sarebbero state tutte archiviate.

Da questa ennesima battaglia processuale si ricava l’impressione che le difese abbiano voluto non solo dimostrare l’inattendibilità del teste, ma instillare nei giurati il dubbio che qualcuno possa avere tentato una forzatura.

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