Per una volta la Cupola dello sport ha perso e un ragazzo italiano che fa il marciatore si riprende la sua vita. Per cinque lunghi anni è stato dileggiato, isolato, crocifisso. Si intuiva che c'era qualcosa di molto losco sotto, si capiva che i “signori del doping” gli avevano teso un tranello.

Prove e provette manipolate, falsi testimoni, urine “stressate” nei laboratori, processi farsa. Oggi sappiamo che Alex Schwazer, nato il 26 dicembre 1984 in quella parte d'Italia dove si parla tedesco - Vipiteno - non si è drogato quando voleva tornare in pista per dimostrare che si può vincere anche senza sostanze. Oggi sappiamo che ad incastrarlo sono stati i boss dell'atletica mondiale.

Giustizia

La sentenza viene dal giudice delle indagini preliminari di Bolzano Walter Pelino che, dopo un'inchiesta che sembrava non finire mai, ha archiviato il procedimento penale a carico di Schwazer “per non avere commesso il fatto”.

Alex non si è dopato. Nella motivazione del suo verdetto il magistrato «ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina prelevati siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e di ottenere la squalifica e il discredito dell'atleta come del suo allenatore Sandro Donati».

Ricostruisce anche come si sono mosse in questa vicenda la Wada (l'Agenzia mondiale Antidoping) e la Iaaf (la Federazione internazionale di Atletica) che «hanno operato in maniera totalmente autoreferenziale non tollerando controlli dall'esterno fino al punto di produrre dichiarazioni false».

Si chiude un “caso” che era stato spacciato come una spy story, un mistero inestricabile. Niente di più falso. Era una semplice affaire di mafia sportiva. Alex Schwazer aveva una grande colpa: aveva parlato, aveva fatto nomi e cognomi di chi copriva il doping, aveva rotto il muro di omertà in un ambiente dove vale solo la regola del silenzio.

Così gliel'hanno fatta pagare cara, a lui e all'allenatore che gli ha creduto, il maestro dello Sport Sandro Donati, scienziato della metodologia dell'allenamento, autore di libri di successo, famoso per le sue decennali battaglie contro il doping. Il marciatore, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, squalificato alla vigilia di quelle di Londra nel 2012, nel 2016 voleva andare a Rio De Janeiro per conquistare il gradino più alto del podio sulla 50 km e probabilmente anche sulla 20 km. Ma gliel'hanno impedito con l'inganno.

Prima l'agguato, poi un processo vergogna a Copacabana, a Giochi già iniziati da sei giorni. Squalificato da una giustizia sportiva fuorilegge.

Rappresaglia

La rappresaglia della Cupola va in scena il 15 dicembre del 2015, poche ore dopo la testimonianza di Schwazer davanti ai giudici di Bolzano. Il marciatore è lì perché, prima delle Olimpiadi di Londra, ha assunto eritropeina.

Lo confessa, patteggia una pena a 9 mesi di reclusione, ma soprattutto racconta il marcio che ha intorno. Punta il dito contro due dirigenti della federazione italiana d'atletica: «Sapevano tutto». E consegna al procuratore capo della repubblica di Bolzano Guido Rispoli un dossier.

Il magistrato indaga, allarga un'inchiesta che poi s’incrocia con “il doping di Stato” scoperchiato in Germania e che coinvolge quasi mille atleti russi. I pupari sono i pezzi grossi dell'Atletica mondiale, l'allora presidente senegalese Lamine Diack, uno dei suoi quindici figli Papa Massata, il capo dell'Antidoping Gabriel Dollè.

Tutti e tre, successivamente saranno condannati per corruzione. Ma in quel momento sembrano intoccabili. Il ragazzo altoatesino tocca i fili dell'alta tensione. Subito dopo la sua deposizione, parte “l'Operazione Schwazer”: la caccia grossa ad Alex. Obiettivo: distruggerlo. La federazione internazionale dispone proprio quel 15 dicembre, “con inusitato anticipo”, un controllo antidoping sull'atleta per il giorno di Capodanno del 2016. Alle 7,30 del 1 gennaio, l'ispettore Jenkel bussa alla porta della casa di Alex a Calice di Racines, un villaggio fra le montagne.

Trucchi e trucchetti

Gli ordina di fare la pipì, lui ubbidisce e quello se ne va. L'urina viaggia verso Stoccarda, dove c'è la sede della Gqs, la Global quality sports, il service che la federazione atletica mondiale utilizza per i controlli antidoping e dove Jenkel deve consegnare il reperto. L’indomani l’urina riparte, in direzione di Colonia per raggiungere i laboratori della Wada. Ma per 15 ore quelle provette sono incustodite, non si sa in quale mani.

Schwazer è all'oscuro di tutto come all'oscuro di tutto è Donati che, dopo avere incontrato il marciatore a Roma nell'inverno del 2015, accetta di allenarlo per portarlo a Rio. Alex è un fenomeno, Donati scommette sul ragazzo, vuol far sapere che l'oro si può prendere senza “additivi”. E' una coppia troppo pericolosa. Da abbattere.

La squalifica per l'epo di Londra è finita, a fine aprile 2016 Schwazer può tornare alle gare dopo 3 anni e 9 mesi.

L'8 maggio c'è la 50 km di Roma. Cominciano le manovre contro Alex e Donati. Dichiarazioni al veleno di allenatori come Sandro Damilano. Il campione olimpico, l'australiano Jared Tallent, si sfoga con i giornalisti: «Schwazer è la vergogna d'Italia». Il campione italiano indoor di salto in alto Gianmarco Tamberi scrive su fb: «Squalificatelo a vita, noi non lo vogliamo in Nazionale».

Alex Schwazer a Caracalla stravince, è la qualificazione per le Olimpiadi. Ma c'è un retroscena. Prima della gara di Caracalla Sandro Donati riceve una telefonata da Nicola Maggio, giudice di marcia internazionale. Senza pudore Maggio gli dice: «Buongiorno, allora lei, per cortesia, stia calmo, l’unica cosa, la prego, glielo dica (riferendosi a Schwazer, ndr) possibilmente lasci vincere Tallent mi capisce?». Donati registra la telefonata. Un'altra telefonata Nicola Maggio la farà a Donati prima di una gara sui 20 km a La Coruna, in Spagna: «Gli dica di fare una gara bella tecnicamente, di non andare a cercare disgrazie con i cinesi perché non ha senso».

Schwazer è pronto per Rio. Il 1 gennaio del 2016 gli avevano prelevato le urine, a fine gennaio l'analisi dà esito negativo, ad aprile scongelano il campione ed è positivo. Dopato. Testosterone. Ma la notizie viene nascosta per 38 giorni. I capibastone dell'atletica mondiale hanno un piano: prendere tempo, diffondere la notizia che Schwazer è drogato il più vicino possibile all'inizio delle Olimpiadi. E la notizia arriva il 21 giugno, quando il marciatore è come ogni mattina ad allenarsi sulle rive del fiume Isarco. Occultano le prove per mettere un cappio al collo ad Alex. Il ragazzo piange, urla: «Non ho fatto niente, questa volta non chiedo scusa, qualcuno vuole che io non vada a Rio».

Il suo allenatore ha paura, teme per sè e per la sua famiglia. Troppi avvertimenti. Un giorno va in procura a Roma, la settimana dopo la presidente dell'Antimafia Rosy Bindi lo convoca a Palazzo San Macuto: «Di doping non si deve parlare... e chi ne parla fa sempre una brutta fine».

Alex vuole comunque andare in Brasile. Si allena a Cobacabana fra i fumi delle auto e i runners, quando - è il 10 agosto - gli comunicano che è fuori. Drogato per la seconda volta. Dice solo due parole: «Sono distrutto».

Ma l'affaire si complica. Perché la magistratura di Bolzano va avanti nella sua indagine e scopre che, nei laboratori tedeschi dell'Agenzia Antidoping, fanno carte false. Il comandante dei carabinieri del Ris, il colonello Giampietro Lago, va in Germania su delega dei pm italiani e gli consegnano una provetta aperta.

Il colonnello si rifiuta di prenderla in consegna, i responsabili del laboratorio sono ostili, nascondono qualcosa. Perizie chimiche e genetiche rivelano che, nelle urine prelevate ad Alex Schwazer, ci sono «valori non umani». E' l'ultimo capitolo. Con il giudice Walter Pelino che oggi ordina al pm di indagare ancora sulle mosse fraudolente dell'Agenzia mondiale Antidoping “per accertare se emergono ulteriori falsi”.

Schwazer e Donati escono dall'incubo. Ma come ci si può fidare ancora dell'Agenzia mondiale Antidoping e dei boss dell'Atletica mondiale?

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