Ogni anno a settembre le tortore selvatiche migrano dal nord Europa per svernare in Africa. Per gli uccelli migratori, l'Italia è una piattaforma di lancio geograficamente ideale per partire e tornare. Le tortore transitano da noi in leggero anticipo rispetto alla stagione della caccia, che inizia la terza domenica del mese. Come ogni anno, la maggior parte delle regioni ha concesso una deroga per aprirla in anticipo per non far perdere ai cacciatori italiani la possibilità di sparare alle tortore, nonostante siano considerate globalmente minacciate e in grave stato di conservazione (spec-1).

È una caccia di appostamento, senza cani, «croce e delizia del migratorista italiano»: così la descrive un blog del settore. Secondo uno studio della Stazione ornitologica svizzera di Sempach, ogni anno vengono uccise tra i due e i tre milioni di tortore in viaggio verso l'Africa. «È una specie in collasso, diminuita in Europa del 70 per cento, va dritta verso l'estinzione», spiega Ariel Brunner, di BirdLife International. Altri volatili in pessimo stato di conservazione che le regioni consentono di cacciare: quaglia, pernice, gallo forcello, allodola.

Trent'anni fa, il 3 e 4 giugno del 1990, gli italiani furono chiamati a votare per un referendum che avrebbe fortemente limitato l'attività venatoria, vietando in particolare l'accesso dei cacciatori ai fondi privati.

Fu la prima storica sconfitta degli ambientalisti italiani: si trovarono contro il fronte dei cacciatori, che copriva (allora come oggi) l'arco costituzionale e riuscì a evitare il raggiungimento del quorum. Oggi i soli partiti anti-caccia sono Radicali ed Europa Verde e l'abolizione, o qualunque cosa ci si avvicini, è sparita dall'orizzonte del dibattito. Anche per le organizzazioni animaliste la pratica quotidiana è fatta di sorveglianza volontaria sul territorio e micro-battaglie legali su singole specie e calendari venatori delle regioni, che hanno competenza sulla materia.

La fine della società agricola

In questi trent’anni è cambiato lo scenario della fauna: gli uccelli sono sottoposti a quello che BirdLife chiama «massacro generalizzato», lepri e fagiani devono essere immessi dagli stessi cacciatori per potergli sparare, mentre sono in ripresa gli ungulati, caprioli, cervi e soprattutto cinghiali, la cui popolazione è oggi il principale passaporto di legittimità per i cacciatori italiani.

Ogni conversazione con uno di loro a un certo punto approderà qui: ci sono troppi cinghiali, fanno danni all'agricoltura, causano incidenti, solo noi possiamo mettere un freno. Come vedremo, è una verità solo parziale.

Dal referendum del 1990 c'è stato un altro grande cambiamento: sono diminuiti i cacciatori. Erano 1,7 milioni nel 1980, 1,4 milioni quando si votò trent'anni fa, tra i 450mila e i 500mila oggi. Non è stato l'animalismo a decimarli, quanto la fine civiltà agricola. «Una volta c'era un fucile sopra il camino di tutte le case dei contadini», ricorda Piergiorgio Fassini, presidente di Arcicaccia, 67 anni, cresciuto sparando alle anatre nella laguna veneta.

Quelli di Arcicaccia sono i «compagni della natura», l'associazione è nata nella sinistra italiana, anche se oggi il legame si è allentato: «Diciamo che molti iscritti sono come operai che stanno nella Cgil per difendere i propri interessi, ma poi votano a destra». Per Fassini, come per la maggior parte di chi condivide la sua passione, «i cacciatori sono i veri ambientalisti. Conosciamo il bosco, gli animalisti non sanno nemmeno come è fatto, non hanno mai visto l'alba tra gli alberi, mai sentito il respiro dell'animali. Animalismo, veganesimo sono solo mode».

Nel variegato mondo venatorio, Arcicaccia è considerata una voce moderata, attenta a cercare una posizione dentro la società che ne rispecchi i cambiamenti. «Noi cacciatori siamo una minoranza, ma in democrazia si rispettano anche le minoranze. Cacciare tutto e sempre era un estremismo, ma lo sarebbe anche non cacciare più niente. Noi siamo a disposizione della collettività, soprattutto per quanto riguarda i cinghiali, riesce a immaginare quanti sarebbero senza la caccia?».

In realtà è difficile immaginare qualsiasi regolamentazione, perché la caccia in Italia ha un problema di raccolta dati. L'unica fonte sono i cacciatori stessi, che registrano il numero di esemplari abbattuti sui loro carnieri e li comunicano alle regioni, fornendo le informazioni spesso a mano. I conteggi finali non sono resi pubblici e tutto quello che resta sono stime. La Lav - Lega anti vivisezione ha calcolato il numero di animali che possono essere legalmente uccisi: 464 milioni per ogni stagione. La maggioranza sono volatili: la caccia ai cervi e ai cinghiali è sempre esistita, ma in forma minoritaria.

Il contadino italiano con la doppietta sul camino è soprattutto interessato agli uccelli migratori. Le direttive europee impongono il principio di una caccia sostenibile, ce lo spiega Piero Genovesi di Ispra, l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che ogni anno esprime alle regioni i suoi pareri su cosa si può cacciare e cosa no, quando e in che misura: «Ogni popolazione è come un capitale in banca, sul quale i cacciatori possono raccogliere l'interesse senza intaccarlo».

Sugli ungulati capitale e interessi sono facilmente identificabili, riuscirci su popolazioni dinamiche e non stanziali come gli uccelli migratori è molto meno realistico. Ispra, che ha una posizione istituzionale e quindi neutrale tra le parti, per altro puntualizza un'altra questione: il controllo dei cinghiali. «Non sempre i cacciatori hanno interesse ad agire per il contenimento della specie, tendono a cacciare soprattutto maschi adulti da trofeo, per contenere la popolazione occorre ridurre femmine e giovani. Cacciando solo maschi adulti, si può avere l'effetto opposto, farli aumentare invece che diminuire».

L’amore per il piombo tossico

La caccia fa parte della società e della cultura italiana e, nonostante il crollo nei numeri, è forse impensabile un'Italia nella quale venga del tutto cancellata, e d'altra parte nessun paese europeo o occidentale è riuscito ad abolirla. «Il mondo venatorio dovrebbe però crescere come formazione e cultura», commenta Genovesi, «per ora rimane il fruitore di una risorsa, ma non sempre contribuisce alla sua tutela. La sfida del mondo venatorio sarebbe superare l'approccio utilitaristico all'ambiente».

Non c'è un aspetto che ci permetta di comprendere questo approccio nei confronti dell'ambiente meglio della ritrosia dei cacciatori a rinunciare ai pallini al piombo. «Ormai il piombo è vietato nei prodotti e nei processi industriali, l'unico ambito della nostra società in cui è usato sono le migliaia di tonnellate immessi nell'ecosistema a ogni stagione venatoria», spiega Brunner. «Non entra solo nei boschi e nei fiumi, ma anche nella catena alimentare, ogni anno in Europa muoiono più uccelli da saturnismo, cioè avvelenamento da piombo, che per la caccia stessa». In Danimarca e Olanda le munizioni tradizionali sono già al bando e si spara solo con proiettili atossici.

Quello raccontato è il complesso scenario della caccia legale, all'interno delle regole, dei limiti e dei calendari. Ma il discorso sarebbe incompleto senza parlare di tutto quello che si muove al di fuori, cioè bracconaggio.

Una delle analisi più dettagliate a nostra disposizione fu prodotta nel 2017 dal Cabs - Committee against bird slaughter, una Ong tedesca. Tra le informazioni più interessanti c'è la contiguità tra bracconaggio e caccia in Italia: il 77,8 per cento dei reati sono commessi da cacciatori con licenza e solo il 19 per cento da bracconieri puri (spesso vicini alla criminalità organizzata). Più di un terzo riguarda l'abbattimento di specie protette, il resto comprende l'uso di tecniche illegali (come i richiami elettromagnetici), la pratica fuori dal calendario o dagli orari consentiti. Insomma, secondo questi dati i bracconieri sono spesso cacciatori che si prendono delle libertà, incoraggiati dalla lievità delle pene e dalla possibilità di fare oblazione (pagare ed estinguere il reato).

Un rapporto di BirdLife aveva indicato l'Italia come «stato canaglia» dell'uccisione illegale di volatili, oltre 5 milioni all'anno, secondo paese più letale del Mediterraneo dopo l'Egitto. Lipu ha diffuso una mappa degli hotspot, che vanno dalle valli del bresciano allo stretto di Messina. Negli ultimi mesi sono state abbattute perfino due aquile reali, una sui Sibillini e l'altra in Alto Adige mentre covava il nido.

Le battaglie amministrative

Anche se muove passioni e agita contrapposizioni ideologiche, la caccia è una materia estremamente tecnica, le battaglie non si combattono nelle urne quanto nei tribunali amministrativi, con continue scaramucce legali su date, specie, conteggi, tecniche. Dalla Lac - Lega abolizione caccia, fanno sapere che «il Tar accoglie sempre i nostri ricorsi, ma non ce la facciamo a impugnare cinque leggi regionali al mese». E qui arriviamo al punto fondamentale sulla resilienza della caccia e dei suoi privilegi. Lo spiega con lucidità Massimo Vitturi di Lav: «La caccia è un potente luogo di scambio per interessi politici, perché è molto vicina al territorio, garantisce una contropartita elettorale immediata e quantificabile. Lo dimostra il numero di cacciatori eletti nei consigli regionali».

Il settore si è indebolito nei numeri, ma non ha perso rappresentanza politica, quella che invece gli interessi ambientalisti in Italia fanno fatica a conquistare. È la lettura che ci offre Fabrizio Cianci, segretario degli Ecoradicali, associazione tematica legata ai Radicali. «È la sfiga dell'Italia, il movimento ecologista è forte nella società ma non è in Parlamento, dove invece sono sovra-rappresentate le istanze contrarie. Le grandi tematiche verdi da un lato sono state regionalizzate e dall'altro depoliticizzate, spezzettate, tolte dalle istituzioni e affidate solo alle associazioni».

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