Raramente ho avvertito un disagio così profondo come nel leggere la polemica sul questionario del comune di Nettuno rivolto ai familiari che hanno a carico persone con disabilità. Un polemica accompagnata da titoli come “Questionario shock”, “Il questionario della vergogna”, “Le (irricevibili) domande sui figli disabili nel questionario per caregiver”. E tutto perché nel suddetto questionario erano incluse domande come: “Quanto ti vergogni del familiare disabile?”, “Quanto risentimento provi nei suoi confronti?”, “Senti che stai perdendo vita?” e così via.

Ora, a parte che anche un bambino, con una semplice ricerca su Google, si accorgerebbe che queste domande fanno parte di schede di valutazione standard e internazionali dei caregiver (familiari o operatori) e che sono presenti nei siti delle Asl delle varie regioni d’Italia, la vera questione è: cosa c’è di scioccante, di illeggibile, di violento in queste domande?

Nulla, a parte l’ignoranza dei giornalisti e dei politici (Matteo Salvini e Giorgia Meloni in testa) che le hanno usate per attaccare la giunta Gualtieri e il distretto socio sanitario della regione Lazio, innescando una campagna di indignazione ignobile.

Il problema non sono le domande

E lo dico perché so di cosa parlo, visto che ho una madre in una rsa e un padre di 88 anni gravemente malato che vive in casa con me. Visto che sono a tutti gli effetti la caregiver di mio padre e conosco i caregiver di mia madre, li vedo occuparsi di decine di disabili, osservo la cura e la pazienza con cui calmano un anziano che urla disperatamente “mamma” o con cui imboccano una donna che a malapena schiude le labbra.

Io mi sento accarezzata e compresa da quelle domande perché sono domande formulate da chi conosce la pressione fisica e psicologica che subisce il caregiver, una pressione che prescinde dall’amore per il familiare disabile e che va raccontata a voce alta, senza vergogna e sensi di colpa.

Quelle domande sono lucide e modellate sull’esperienza e l’ascolto, l’indignazione di questi giorni è invece il risultato di scarsa conoscenza del ruolo del caregiver e del fardello che porta sulle spalle.

Non erano brutali le domande del questionario, è brutale il voler rimuovere con la retorica dell’assistenza come missione, del sacrificio come slancio appagante, della malattia come benedizione una verità inconfutabile: assistere quotidianamente una persona non autosufficiente logora e scarnifica, divora tempo per sé stessi, inasprisce i rapporti con gli altri familiari, fa sentire inadeguati e onnipotenti, martiri e assassini in un’alternanza che destabilizza, allontana il futuro e sfianca, in un lotta intestina, perenne, tra l’amore e il risentimento.

Il diritto di stare male

Lo so che alcuni caregiver – soprattutto i genitori caregiver di figli disabili – hanno trovato inopportuno questo questionario ma, lo dico col massimo rispetto, io credo che si siano sentiti feriti da verità che per loro sono impronunciabili.

Il senso di protezione per un figlio disabile rende spesso impossibile spostare l’attenzione su sé stessi. Si teme di essere genitori egoisti, ci si auto-investe di missioni tanto nobili quanto annientanti della propria individualità, ci si convince di non avere più il diritto di manifestare un disagio fisico o psicologico perché il figlio viene prima di ogni cosa.

Eppure, è proprio dal benessere del caregiver che dipende il benessere del disabile. E dal benessere di entrambi dipende anche il benessere del nostro sistema sanitario che grazie all’immenso lavoro dei caregiver tra i familiari ha un alleggerimento di carichi e strutture.

l caregiver hanno diritto di sentirsi arrabbiati, stanchi, frustrati. Hanno il diritto di provare vergogna e di avvertire del risentimento che spesso, tra caregiver e disabile, è perfino reciproco, perché come non è realistica la favoletta del caregiver martire-sorridente è altrettanto falsa la favoletta del disabile necessariamente docile e pio.

L’idea romantica della malattia e dell’assistenza è quanto di più dannoso esista nell’interpretazione delle dinamiche tra chi accudisce e chi viene accudito, perché la fatica della quotidianità impoverisce ogni romanticismo.

Giorni no

Ci sono giorni cui le mie giornate sono prese a morsi dal gorgo nero della burocrazia, dagli uffici che mi rimbalzano, dai dipendenti comunali senza empatia, dai muri che si alzano di fronte allo smarrimento degli anziani che sono anime perse tra moderna digitalizzazione e lentezza burocratica.

Ci sono momenti in cui mi vergogno perché magari mio padre in pubblico dice una cosa fuori posto, inadeguata, ingenua o non sente nulla perché è sordo e io devo urlare davanti ad estranei, o giorni in cui io mi sono sbattuta per ore cercando di risolvere tutti i problemi che si trascina dietro, alcuni magari per sua pigrizia, mi dice una cosa storta o con scarsa gentilezza e vorrei fuggire nel Borneo, abbandonandolo al suo destino.

Ci sono poi i pregressi familiari con cui faccio i conti, come tanti figli caregiver, e ogni tanto mi sale su del risentimento perché io, da figlia, non sono stata accudita quanto avrei voluto e perché mai ora dovrei accudire io i miei genitori, che razza di ingiusto capovolgimento di ruoli mi tocca subire?

Le spalle pesanti

Ci sono giorni in cui devo fare cose importanti e una sua esigenza improvvisa mette in discussione le priorità, devo cercare uno specialista, una medicina, un pensiero positivo per sopravvivere alla frustrazione.

Ci sono progetti che devo rimandare perché «ora non è il momento», «come faccio», «lui come fa» e intanto penso che questo è il mio tempo migliore e chi me lo restituisce.

Litigo, ogni tanto, col mio fidanzato, con mio figlio, con mio fratello perché tutti potrebbero fare di più e invece forse fanno già abbastanza, facciamo già abbastanza, ma ognuno si sente le spalle pesanti e sono così pesanti da non riuscire a girare il collo e guardare la fatica degli altri.

La stessa banca

Qualche giorno fa mio padre è uscito dicendo che andava a fare una breve passeggiata e invece ha percorso molta strada per andare a prelevare contanti al bancomat della sua filiale, perché non vuole pagare commissioni ad altre banche. Gli anziani hanno abitudini ottuse e resistenti, chi li conosce bene lo sa.

Fatto sta che forse non si è accorto che erano state erogate le banconote e ha atteso troppo oppure ha sbagliato con qualche pulsante e lo sportello non gli ha restituito il bancomat. Lui a quel punto si è sentito spaesato, spaventato, non stava bene e mi ha chiamata per dirmi di raggiungerlo.

Io ero arrabbiata perché mi aveva mentito, perché era andato fin lì per non pagare un euro di commissione alla banca sotto casa, perché non sta bene e si allontana troppo, perché stavo facendo altro e ho dovuto mollare tutto, perché il mio fidanzato a sua volta mi ha seguita e ha mollato tutto. Insomma, ero furiosa.

Poi l’ho visto lì, solo, confuso, preoccupato per il guaio che aveva combinato, mortificato perché le persone in fila si erano spazientite e mi è passato tutto. Mi ha fatto una profonda tenerezza.

«Papà ma perché non vai al bancomat sotto casa?».

«Ma questa è la mia banca da 50 anni», mi ha risposto. Era un anziano che cercava di restare attaccato alla sua vita come è sempre stata.

Amare meglio

Cosa avrei risposto a quel questionario due minuti prima? Che ero arrabbiata, frustrata, risentita, che rivorrei il mio tempo e i miei spazi, che è tutto così immensamente faticoso. E sarebbe stata la verità. È la verità.

Ma è vero anche che non potrei fare diversamente, che questo mi fa stare a posto con la mia coscienza, che mio padre ha bisogno di me, che ci sono momenti in cui sento che tutto questo mi restituisce la verità e il senso della vita.

Riconoscere che l’accudimento sia un grande prisma con facce diverse e asimmetriche è un’ammissione dolorosa, ma necessaria. Alleggerisce dai sensi di colpa e consente di svolgere il proprio compito di caregiver ammettendo di essere ingiusti e inadeguati, talvolta. L’indignazione becera e disinformata per quelle domande così centrate non aiuta. Fa credere a un caregiver di non avere il diritto di sentirsi sgradevole, stanco, arrabbiato.

E invece ne abbiamo tutto il diritto. Perché amare qualcuno sapendo che la sopravvivenza di quel qualcuno dipende da noi fa sentire onnipotenti, amorevoli, devoti, ma anche inevitabilmente in trappola. Ammetterlo, ci permette di amare di più e, forse, anche meglio.

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