Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Osservando il modo di agire dei “catanesi” riusciamo a capire perché il metodo mafioso continua ad avere consenso sociale. Santo La Causa è arrivato a essere reggente di Cosa nostra partendo dalla gavetta. Me lo ricordo nei primi anni Novanta quando era ancora un giovanotto di squadra e venne arrestato per la detenzione di una pistola con matricola abrasa che deteneva nel quartiere del Canalicchio. Era scaltro e veloce, tanto che l’arma non la trovammo subito ma fu rinvenuta dai Carabinieri dentro la cassetta della posta. Insomma uno sveglio con un suo modo, anche metaforico, di tenere gli impicci fuori di casa. Si è mantenuto sempre così in ogni ruolo che ha rivestito e, tra una detenzione e l’altra, è arrivato fino al vertice.

Quando, negli anni Duemila, è divenuto collaboratore di giustizia ha fornito una sorprendente chiave di lettura della strategia economica del suo gruppo. Ha raccontato come i catanesi non si limitavano – come abbiamo visto – a influenzare o addirittura a gestire iniziative economiche, ma adottavano anche criteri per regolamentare l’accesso delle imprese ai subappalti dei grossi lavori. E così Enzo Aiello, nella sua qualità di responsabile economico della famiglia, si era assunto il compito di scegliere le aziende da far lavorare per il nolo dei mezzi e degli escavatori, per il movimento terra e per le forniture degli inerti.

 Un occhio di riguardo alle aziende locali

Nello svolgere tale compito il mafioso esercitava questo suo potere tenendo conto delle aziende “vicine” che gli apparivano in difficoltà economiche. E così, ad esempio, privilegiò le ditte operanti nel catanese piuttosto che quelle di Caltanissetta che gli erano state segnalate da Tusa, rappresentante della provincia nissena. Insomma la mafia – travestita da soggetto economico – si preoccupava anche di mantenere i livelli produttivi e occupazionali delle imprese sue finanziatrici e operava – con i sui metodi e i suoi scopi – la pianificazione degli interventi, tenendo conto dell’impatto delle proprie scelte sull’economia locale. Mentre, come abbiamo visto, nelle iniziative degli enti pubblici territoriali non pare esservi stata altrettanta attenzione per gli impatti socio-economici di talune scelte.

Cosa nostra – pur nella prospettiva deviata e parassitaria di continuare ad approfittare delle imprese amiche – si è posta problemi che la speculazione privata e l’azione dei pubblici poteri hanno invece del tutto ignorato, nella loro brama di far profitti o di far favori. E così, grazie alle ambiguità e al trasformismo di cui è maestra, la mafia catanese ha creato consenso. Anche questa è una delle amare ragioni per le quali il metodo di azione di Cosa nostra catanese continua a suscitare gradimento in alcuni settori del tessuto socio-economico della città e sopravvive silente al contrasto militare.

Potere e denaro, senza spargere sangue

Insomma, in questa brutta storia c’è tutto: una mafia affamata di denaro e di potere che si fa essa stessa imprenditrice; una classe di imprenditori che non si fa scrupolo di andare oggi in accordo, domani in conflitto con uomini e imprese diretta espressione di Cosa nostra; una mafia che entra in concorrenza con le imprese sul terreno dei rapporti con la politica per ottenere favori; e che compete con istituzioni distratte o corrotte nel farsi carico dell’impatto socioeconomico connesso alle proprie iniziative. Il tutto senza sparare un colpo di pistola. Non serve attendere il giudizio dei Tribunali, ma basta analizzare gli eventi per prendere coscienza di questo mondo capovolto.

Se su tutto ciò si aprisse una seria riflessione, ci sarebbe materia per rivoluzionare l’economia, la politica e l’amministrazione di questo nostro territorio. Invece si fa dipendere tutto – anche il giudizio sull’operato di politici e imprenditori – da una sentenza che riconosca la responsabilità o meno per un reato. E dunque, come spiegheremo meglio tra breve, condannato o assolto equivale a dannato o santo. Come se i fatti non contassero nulla, i tribunali da luoghi di giustizia vengono trasformati così in produttori di alibi.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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