Avete mai sentito parlare di femminismo dei dati? Come si conciliano una campagna sui dati come bene comune con la storia e le pratiche del femminismo? 

Come nasce il “data feminism”

Il femminismo dei dati oggi ha un nome con il quale viene conosciuto e riconosciuto, grazie al lavoro di ricerca e di sintesi svolto dalle ricercatrici e attiviste Catherine D’Ignazio e Lauren Klein, svolto rispettivamente al MIT di Boston e alla Emory University. Fino a poco tempo fa scrivere un breve contributo divulgativo su questo tema, in italiano, sarebbe stato eccessivamente ambizioso per qualsiasi giornalista, ricercatrice negli studi di genere o attivista dei dati: mancavano un vocabolario, una sintesi, una elaborazione teorica e scientifica, delle pratiche, delle indicazioni politiche, ma soprattutto era assente la consapevolezza diffusa nella società dell’importanza strategica delle infrastrutture di dati. Secondo le ricercatrici D’Ignazio e Klein l’analisi dei dati oggi è un dispositivo di controllo e quindi di potere. È necessario perciò trovare un modo nuovo per cercare, analizzare e raccontare la realtà dei dati facendo tesoro delle idee del femminismo intersezionale. Questa nuova cornice interpretativa e di azione è chiamata Data Feminism, dal titolo del libro pubblicato dalle due autrici nel 2020.

E se mancano i dati?

Anche senza conoscerne il nome, avevo già incontrato le prime tracce di femminismo dei dati durante le attività a lato di un progetto di ricerca-azione sui dati aperti in sanità nel 2015, durante un ciclo di seminari intitolato “Sanità in Movimento”, sulla visione della sanità del futuro e sulle tematiche sanitarie e sociali emergenti. Tra i seminari ne organizzammo uno intitolato “La medicina ha un genere? Curarsi nelle differenze”. Tra i tanti temi legati alla medicina delle evidenze e delle differenze emersero anche quelli della mancanza di dati di genere o della difficoltà di accesso ai dati disaggregati per genere. I dati di genere, per esempio, hanno forti implicazioni sul piano della campagna vaccinale. La mancanza di dati disaggregati per genere sui trial clinici, sui decorsi delle patologie o raccolti in farmacologia sulla posologia dei farmaci o sulle reazioni avverse rappresentano un’incognita per i decisori politici e un rischio per ogni cittadino che decida di aderire alla campagna vaccinale. Le relatrici del convegno non denunciarono la mancanza di uno sguardo di genere con il linguaggio esplicito dell’attivismo femminista, ma spiegarono come il modello di corpo su cui si basano i protocolli per la sperimentazione, la prevenzione e la cura delle maggiori patologie sia un corpo maschile e adulto. Il corpo delle donne, come quello dei bambini, è visto in medicina come una versione su scala ridotta, nelle misure di peso e altezza, del corpo di un uomo adulto.

Sono passati 6 anni, ma sembra un tempo lontano e dimenticato a causa della grande accelerazione di questi anni. Nei congressi scientifici, come nei talk show, non si parlava solo di pandemia, di epidemie, di infodemie, di campagne vaccinali in un momento di emergenza. Le istituzioni avevano tempo e strumenti per osservare la cultura organizzativa e le risorse a disposizione. Tra queste risorse c’erano ieri e ci sono ancora di più oggi dati dei pazienti, dati amministrativi e contabili, dati dei flussi informativi digitali, dati raccolti per le attività di ricerca, monitoraggio e valutazione di impatto o la misurazione della qualità. Dati che ieri e oggi possono aiutarci ad uscire dall’emergenza sanitaria, sociale ed economica (quindi anche da quella politica) ma che, purtroppo, non contemplano la diversità; sono incompleti e di scarsa qualità e soprattutto non sono accessibili.

Per la accessibilità dei dati

Anche per questo motivo il movimento femminista intersezionale si propone come portavoce di una richiesta di “dati per contare” e di “dati come bene comune”. Period, il think tank femminista, che di recente ho contribuito a fondare, ha accettato la sfida di far conoscere il femminismo dei dati anche in Italia. 

Period può rivendicare un primo risultato concreto: l’approccio del Data Feminism è stato adottato dal Comune di Bologna con un atto di giunta. In questo atto l’istituzione si impegna alla pubblicazione di dati di genere e all’adozione di indicatori di impatto di genere fin dalla fase di programmazione delle attività e della spesa. Nel brevissimo termine questo è già un gran risultato, ma è solo il primo passo per raggiungere il nostro vero obiettivo: sensibilizzare al femminismo dei dati altre istituzioni, soprattutto quelle a diretto contatto con i cittadini e quelle deputate alla raccolta e al riuso dei nostri dati.

Abbiamo avviato contatti con altre città dell’Emilia-Romagna e con città metropolitane del centro e del sud Italia. Abbiamo bisogno di “dati per contare” perché sui dati oggi vengono disegnati modelli di “gemelli digitali e virtuali” di persone, di comunità, di intere città o di ospedali. Strategie, politiche, linee guida e protocolli nascono dai dati e non ci possiamo permettere di trascurare questa risorsa o ingenuamente lasciarla in mano a soggetti privati. Dati e informazioni dovrebbero essere bene comune, come richiede oggi l’omonima campagna promossa da 200 organizzazioni e che ha raccolto oltre 50.000 firme. Tantissime informazioni utili ad affrontare le sfide sono intrappolate nei sistemi informativi: liberiamole! 

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