Caro direttore, come sempre faccio, ho letto con interesse l’editoriale di Emanuele Felice pubblicato su questo giornale. Felice ha commentato la mia proposta di creare una Confederazione Europea che comprenda i 27 stati membri dell’Unione, l’Ucraina e gli altri 8 paesi dell'est che vorrebbero entrare nell’Ue.
A differenza sua non vedo alcuna contraddizione tra questa idea e una maggiore integrazione politica europea attraverso il potenziamento del pilastro sociale.

L'intento è esattamente il contrario. E l'orizzonte è una svolta in senso finalmente federale, con l’abolizione del diritto di veto in quegli ambiti strategici ancora sotto l'egida intergovernativa.
Quanto accaduto con la pandemia ha creato le condizioni per far avanzare il pilastro sociale per il quale Jacques Delors e Romano Prodi si sono battuti. In passato furono prevalentemente i veti britannici a inficiare ogni avanzamento. Quei veti che effettivamente rendono l’Unione intergovernativa, non confederale, in troppi campi.

Ma la contemporanea assenza del diritto di veto in settori altrettanto cruciali come la moneta e il commercio solo per citarne alcuni, fa dell’Unione attuale una costruzione originale, un oggetto politico non identificato come direbbe lo stesso Delors. Un esperimento unico perché al suo interno convivono componenti di vero e proprio federalismo con aspetti intergovernativi. E sono proprio questi, ai miei occhi, a frenare l’efficacia di alcune politiche europee.

Le crepe e l’unità 

Il pilastro sociale oggi è una potenziale realtà. Grazie al piano SURE (che si sta cercando di trasformare in uno strumento permanente), alle politiche sanitarie e al Vertice di Porto stiamo avanzando verso l’Europa Sociale. La fine dell'ostruzionismo britannico senz’altro ha giovato. L'urgenza di rispondere alla pandemia ha fatto il resto.
Non possiamo fermarci. E l’Italia deve spingere in questa direzione. Il rischio di arenarsi, in realtà, investe l'intera architettura politica Ue che, in assenza di un rilancio coraggioso, può sgretolarsi sotto i colpi di una minaccia esterna esiziale.
Dopo l’unità delle prime settimane, sono riemerse crepe e ambiguità. Da Berlino ma non solo. Diversità che prima di diventare divisioni e poi lacerazioni vanno affrontate con idee ambiziose e di rottura.
Per l’Europa è il tempo del when in trouble go big. Nel momento più buio dobbiamo pensare in grande. O vogliamo illuderci di andare avanti come se il 24 febbraio fosse una data qualsiasi? No. Il 24 febbraio, con la guerra di Putin, ha cambiato la storia europea: radicalmente e per sempre.
Rispetto a questa cesura la Confederazione può essere una risposta immediata. Un modo per dire a milioni di cittadini che alla UE guardano come orizzonte di pace, libertà e benessere: siamo tutti nella stessa famiglia europea.
Si tratta di imparare dagli errori del passato: di non ripetere quanto accadde dopo la caduta del Muro di Berlino. Allora molte promesse, altrettante illusioni. Salvo poi imporre ai paesi dell’Europa Centrale e Orientale anni di complicati negoziati bilaterali. Senza un disegno politico complessivo, con le procedure a farla da padrone sulla politica.

Mantenere le promesse

Sono convinto che molti dei guai odierni con Ungheria, Polonia e il resto del blocco di Visegrad siano il frutto di frustrazioni e incomprensioni originate da promesse non mantenute. Di un limbo troppo lungo al quale furono costretti prima di entrare. Un limbo in cui si sono creati sentimenti ostili a Bruxelles e all’Europa comunitaria, in contrapposizione al sentimento filo-americano che contemporaneamente cresceva. Il caso della Polonia è emblematico.
Non possiamo reiterare gli stessi abbagli. Se dovessimo anche solo applicare i 14 anni necessari per il primo allargamento a Est, l’Ucraina entrerebbe nel 2036 nell’Ue. È credibile? Direi proprio di no.
Ecco perché creare ora la Confederazione risponderebbe all’immediato bisogno di accogliere subito l’Ucraina e gli altri paesi dentro la “famiglia europea” senza creare frustrazioni e delusioni inevitabilmente causate dai tempi di una seppur necessaria procedura di adesione all’Ue. Quest’ultima resterebbe l’orizzonte di fondo, ma si creerebbe uno spazio istituzionale intermedio per superare l’attuale alternativa binaria del “dentro o fuori”.
La Confederazione, avrebbe l’obiettivo di costruire da subito legami economici e culturali, ponendo le basi per ulteriori convergenze. Si potrebbe partire da accordi che garantiscano un accesso preferenziale al mercato unico e ai progetti europeo di ricerca o di scambio, come ad esempio l’Erasmus. Un secondo passo, potrebbe essere la condivisione di posizioni comuni sui grandi capitoli dell’agenda internazionale, come la lotta al cambiamento climatico, la promozione di modelli di sviluppo sostenibile, la difesa dei diritti fondamentali e della pace.
Così raggiungeremmo anche un importante obiettivo strategico: dare all’Europa la leadership nella costruzione di un nuovo equilibrio nel continente senza subire le scelte di altri.
Pur nella conferma e nel rafforzamento dell’alleanza atlantica, credo ci si renda conto che, oggi, mosse sbagliate o poco lungimiranti da parte degli europei potrebbero facilmente generare divisioni interne come quelle già viste di recente.

Bisogna cioè evitare una dinamica dove la timidezza e la lentezza delle scelte europee finiscano per rendere alcuni paesi più vicini a Washington che a Bruxelles.
E’ il momento di scelte coraggiose. Scelte che, sono convinto, trovano forza nel sentimento comune che attraversa le nostre pubbliche opinioni.

Per questo credo la Confederazione Europea non debba muovere i suoi primi passi da un confronto tra i singoli governi, ma dal Parlamento Europeo. Il luogo della democrazia europea.

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