Non ci risulta che Matteo Salvini abbia mai conseguito un dottorato di ricerca o un master in materia fiscale. Eppure ogni giorno Salvini parla di tasse, imposte, imposte patrimoniali, catasto,  accise, flat tax (con pronuncia regolarmente errata), senza avere una chiara conoscenza del significato di ogni singola parola.

Il termine “tassa”, ad esempio, non è sinonimo di imposta. La prima si paga a fronte di un servizio preciso reso dallo stato, le imposte sono tributi imposti dallo stato senza che vi corrisponda una prestazione. Il principale scopo di Salvini è comunque quello di opporsi a una qualsiasi revisione del sistema fiscale per difendere i voti che arrivano alla Lega, o alla destra in genere, da professionisti, artigiani, proprietari di immobili, ed evasori fiscali, che sono quelli che traggono i maggiori benefici dal sistema fiscale attuale.

Il senso del fisco

La Costituzione che recita: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Si stabilisce dunque che le imposte raccolte dallo stato vadano a finanziare la spesa pubblica che lo stato sostiene per offrire ai suoi cittadini i servizi della sanità, della scuola, della giustizia, dei trasporti, delle Poste, della pubblica amministrazione e per pagare le pensioni.

Pagare le imposte significa sostenere uno stato efficiente e questo principio è molto comune nei paesi anglosassoni dove il cittadino paga le imposte dovute ma pretende di ricevere i servizi dallo stato. In quei paesi evadere le imposte corrisponde a un furto ai danni della comunità, punito anche con la reclusione.

In Italia si ha, al contrario, un sentimento quasi di ammirazione verso coloro che riescono ad evadere o eludere le imposte. 

Il secondo concetto è quello della capacità contributiva, che rappresenta il principio attraverso il quale l'onere fiscale viene ripartito tra i cittadini di uno Stato in base alla capacità economica di ognuno di essi. La capacità economica si sostanzia in quanto ogni contribuente riesce a produrre in termini di reddito formato da: reddito da lavoro dipendente, reddito da lavoro autonomo, reddito fondiario, reddito da capitale, reddito da società.

L'applicazione del principio della capacità contributiva deve rispettare l'equità orizzontale, garantendo un trattamento uguale per coloro che si trovano nelle stesse condizioni e l'equità verticale, tassando in modo diverso i contribuenti con capacità contributiva diversa.

In teoria i redditi prodotti, che rappresentano la capacità contributiva di un cittadino, costituiscono il reddito imponibile sul quale devono essere applicate le aliquote di imposta che dovrebbero essere uguali per ogni tipo di reddito.

Non tutti i redditi sono uguali

Accade invece che in Italia (ma anche in altri paesi) si tassino i diversi tipi di reddito con aliquote diverse: i redditi da lavoro con una progressione assai discutibile, i redditi di capitale con un’aliquota pari al 26 per cento per interessi derivanti da dividendi, obbligazioni, interessi attivi bancari e postali, certificati di deposito, e 12,5 per cento per titoli di stato e simili.

I redditi fondiari sono tassati in base alla rendita catastale. Questi diversi sistemi di tassazione finiscono per creare un vantaggio per chi, ad esempio, investe un titoli di Stato piuttosto che in azioni.

Il terzo concetto è quello del criterio di progressività dell’imposizione. Il tassare alcuni redditi con aliquote fisse è allora contrario alla Costituzione e crea privilegi inaccettabili. Si smetta dunque di parlare di flat tax che rappresenta solo una chiara marchetta elettorale.

Per rispettare il principio di equità si dovrebbe adottare un sistema di progressività lineare sul reddito delle persone fisiche, come esiste in Germania, e non progressivo per scaglioni.

La curva della progressività potrebbe essere crescente in misura minore sui redditi più bassi e aumentare con una derivata maggiore sui redditi più elevati.

Negli anni Settanta, la tassazione delle persone fisiche arrivava in Italia al 70 per cento per il reddito eccedente i 550 milioni di lire e all’83 per cento in Gran Bretagna per il reddito eccedente le 200.000 sterline, senza che questo impedisse lo sviluppo di quegli anni.

Oggi un amministratore delegato di una banca, che percepisce uno stipendio annuo di tre milioni di euro se pagasse anche un’imposta del 60 per cento sugli ultimi 500.000 euro di reddito non subirebbe un danno consistente ma potrebbe aiutare a ridurre il carico fiscale che grava sui redditi minori. Oltre a rispondere a criteri etici.

Questi sono i principi che dovrebbero essere alla base di un sistema fiscale che permetta una redistribuzione della ricchezza in modo equo, capace di ridurre le disuguaglianze sociali, senza compromettere lo sviluppo dell’economia di un paese. Tale sistema, se ben studiato, potrebbe raggiungere anche lo scopo di aumentare i consumi.

© Riproduzione riservata