E alla fine Mark Zuckerberg e Jack Dorsey hanno deciso di bannare l’uomo più potente del mondo. Con un semplice «pensiamo che permettere al Presidente di utilizzare il nostro servizio comporti rischi troppo grandi», Mark ha tolto la parola, su Facebook e Instagram, a Trump. E Twitter ha sospeso a tempo indefinito l’account del presidente citando «il rischio di ulteriore incitamento alla violenza». 

Già si discuterebbe di censura, se i fatti di Capitol Hill non fossero così gravi, talmente gravi che quasi tutti gli osservatori in (almeno minima) buona fede paiono tutti convergere su un punto: era ora.

La museruola social

Incitare la folla a invadere il parlamento, in una democrazia, non è una bella cosa. La gravità e le ramificazioni di un evento del genere saranno discusse e studiate per decenni, e forse che Zuckerberg abbia bannato Trump è cosa ben poco rilevante, nel quadro generale.

Ma vale la pena riflettere un attimo sulla museruola social che è stata imposta da un paio di ricchi, ricchissimi imprenditori a un rappresentante del popolo democraticamente eletto (quattro anni fa) e appena rivotato (due mesi fa) da più di settantaquattro milioni di cittadini americani.

Possiamo condividere l’opinione che Trump, per restare sul terreno di una sofisticata analisi di filosofia del diritto, debba prender su e portare a casa. E possiamo pensare che sia arrivata troppo tardi, che bisognava togliergli il megafono molto prima che si arrivasse a questo punto.

E magari, già che ci siamo, si potrebbe iniziare a bannare anche i complottisti online, magari anche i Novax, che ora, col Covid che galoppa, ci mancano solo quelli. E poi i fascisti, e i razzisti, forse anche Salvini – e qualche parente rimasto renziano a oltranza? Se ne avete, sapete quanto possa essere difficile sopportarli nel feed di Facebook.

La china si vede chiaramente, direi, e a scendere troppo giù si va a finire maluccio, sia perché limitare la libertà di espressione non è, in linea di principio, accettabile, sia perché va ricordato che chi limita, in questo caso, è sempre un privato imprenditore, il signor Zuckerberg o il signor Dorsey, il quale potrebbe (dico potrebbe) avere scopi diversi dalla ricerca indefessa del bene comune.

E va almeno notato che per anni la teoria dei due signori è stata che non avevano e non dovevano avere nessuna funzione di controllo sulle cose che passano nei loro network, in nome della libertà di espressione. Che il risultato delle elezioni americane abbia fatto cambiare loro idea?

Censuare i libri

Per quanti libri siano stati scritti contro Trump, infatti, forse altrettanti ne sono stati pubblicati contro Facebook, Twitter, i social media e l’internet 2.0. Lo scaffale era pronto ad accogliere, nel giugno di quest’anno, un altro volume del genere: The Tiranny of Big Tech, scritto nientemeno che da un senatore americano, uno di quelli che martedì erano in aula, il repubblicano Josh Hawley.

Ma la casa editrice Simon&Schuster ha annunciato giovedì scorso che non intende più pubblicare quel libro. La ragione: «Prendiamo sul serio la nostra responsabilità pubblica in quanto cittadini, e non possiamo sostenere più il senatore Hawley, non dopo il ruolo che ha assunto in quella che è venuta a costituirsi come una minaccia alla nostra democrazia».

Cosa ha fatto Hawley? È stato il primo senatore ad annunciare che lui si sarebbe opposto alla ratifica del risultato elettorale perché, insieme a tanti elettori repubblicani, lo ritiene un esito truccato. Hawley, trumpiano di ferro, ha regolarmente presentato la sua mozione anche dopo che era successo quello che era successo, per vedersela respinta a grandissima maggioranza.

Solo che, dopo che è successo quello che è successo, il suo editore non vuole più essere il suo editore. Segue causa, che si deciderà sulle clausole contrattuali. E segue dibattito, che mi pare anche meno facile da districare.

Anche in questo caso, forse Hawley se lo è meritato, per carità. In più, se è vero che di nuovo un soggetto privato, operante a scopo di lucro, decide di non fornire l’uso della sua piattaforma a chi vorrebbe utilizzarla per lanciare messaggi al pubblico, è altrettanto vero che di editori ce ne sono tanti, qualcuno che pubblichi Hawley si troverà, magari non grande quanto Simon&Schuster, ma si troverà. E il libero mercato avrà salvato la libertà di espressione.

In cerca di alternativa

Forse anche Trump proverà a parlare sui social network alternativi, che stanno diventando popolari tra i suoi seguaci, e lascerà Facebook a noialtri. E però, è vero anche che la libera concorrenza non garantisce affatto alla società una equilibrata informazione, come non si stancano di ripetere, con ottime ragioni, i critici dei vari Fox News e NewsMax, canali televisivi, operanti su un mercato molto concorrenziale, che sono stati, forse ancora più di Facebook, il megafono di Trump in questi anni.

Non solo: venerdì scorso Apple e Google hanno chiesto a Parler, una delle alternative conservatrici a Facebook, per continuare a renderla scaricabile sui rispettivi app store, di prendere misure molto più energiche di moderazione dei contenuti e di controllo degli utenti – cioè di non essere più un’alternativa, ma di adeguarsi agli standard della concorrenza, pena la rimozione dal mercato.

Come dire: Trump viene bannato da tutti i social, oppure i social che si allineano sono a loro volta bannati da chi controlla l’accesso ai nostri telefonini.

Si potrebbe immaginare un’alternativa, un dibattito pubblico che vive su canali garantiti dallo stato, operanti per legge col fine di promuovere la discussione e il pluralismo. Qualcosa sul genere del servizio pubblico radiotelevisivo, se avete presente – o, come diceva una nonna lombarda e agnostica del secolo scorso riferendosi a Dio, “se el gh’è”, se mai esiste. Conoscete paesi in cui la popolazione prende le sue informazioni e forma le sue opinioni esclusivamente grazie al servizio pubblico? Così a occhio, non sono democrazie liberali. E quindi?

Quel che resta della sfera pubblica

Per restare sul generale, mi pare che sia il caso di riflettere sulla qualità e ampiezza del nostro dibattito pubblico, così fondamentale per la vita della democrazia, eppure così dipendente dalle decisioni dei privati e dai loro scopi, e, ancora, così poco adatto a venire regolato da un sistema di norme garantite dallo Stato.

Qualcuno che su queste cose ci ha riflettuto un bel po’ è Jurgen Habermas – filosofo tedesco studiatissimo e autorevolissimo. È lui che ha parlato di “sfera pubblica” e su questo concetto ha costruito una influente teoria della società contemporanea.

Riferendoci a lui possiamo affermare che in Occidente c’è oggi (speriamo) uno spazio in cui si discute delle ragioni dell’agire individuale e collettivo sulla base di razionalità, pluralismo, rispetto – uno spazio che faremmo bene a tenerci stretto: la sfera pubblica, appunto.

Habermas identifica in questa sfera pubblica un luogo in tensione rispetto alla società strutturata dall’economia, ma anche rispetto all’ordine statale determinato politicamente. Il capitalismo da solo non ce la può dare, e neanche le leggi dello stato.

È lo stesso Habermas ad avere chiaro che la sfera pubblica è completamente pervasa e innervata dagli interessi privati.

Non a caso, è nata nell’Inghilterra della rivoluzione industriale e dell’ascesa della borghesia capitalista. Questo è un bel problema, se il vostro scopo è quello di criticare il sistema: sempre con qualche padrone di giornali, detentore di licenze sull’etere, concessionario di pubblicità o sviluppatore di software proprietario vi troverete a fare i conti.

Se i canali di comunicazione sono tanti è meglio: almeno gli interessi si moltiplicano e moltiplicano le possibilità di espressione – e fa davvero impressione pensare che proprio Internet, nei primi, confusi tempi sembrava la quintessenza della sfera pubblica democratica e invece ora è il luogo in cui si sono creati i monopoli più spaventosi e i controlli più invasivi.

Tuttavia, anche se avete letto pochissimo Habermas (come me), non vi sfuggirà che non serve solo quel meraviglioso spazio di libertà tra società capitalista e istituzioni del potere politico: serve soprattutto un sacco di gente che nello spazio parli, discuta, ascolti, convinca, studi, argomenti.

Tutta questa gente (che saremmo noi) dovrebbe farlo senza essere troppo condizionato dai propri interessi economici o dalle proprie propensioni politiche, bensì mettendosi in gioco come essere capace di razionalità.

Dove sta tutta questa gente? Alcuni sono occupati ad assaltare il Campidoglio insieme a sciamani cornuti, tatuati e piuttosto fisicati, altri (molti di più) se ne stanno a crogiolarsi nell’uniformità rassicurante della propria bolla di consumo mediatico. E non è solo colpa di Zuckerberg. Anche, ma non solo.

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