Nell’articolo di Giovanna Faggionato su Domani di venerdì 9 febbraio si riportano le parole del politologo Chris Bickerton secondo il quale il governo di Draghi è un governo ‘tecno-populista’. Se ci riferiamo al sostegno di forze neopopuliste al governo, non si può che essere d’accordo.

Ma non si può considerare Draghi un leader neopopulista. Per ora non abbiamo molto materiale su cui fondare le nostre valutazioni: l’unico documento da analizzare con attenzione è il discorso fatto al Senato in vista dell’ottenimento della fiducia. Si tratta di un testo di nove cartelle, senza fronzoli, che pone dei temi al centro dell’agenda politica e lo fa in modo estremamente lineare.

Al cuore delle varie definizioni di (neo)populismo troviamo tre elementi: la centralità della contrapposizione tra popolo e élite, caratterizzata dalla presenza di una ideologia dal nucleo ‘scarno’; uno stile comunicativo incentrato sulla personalizzazione; una struttura partitica di sostegno controllata da una forte leadership politica.

Alla luce di questi criteri definitori, mentre per altri (apparenti) neofiti della politica – come Emmanuel Macron – l’etichetta di “neopopulista” potrebbe essere utilizzata a proposito, nel caso di Draghi tale attribuzione non pare possibile.

In primo luogo, nel discorso di Draghi non c’è nessun riferimento alla contrapposizione tra "popolo” ed “élite”; anzi, il costante richiamo è all’unità, alla “cittadinanza”, allo "spirito repubblicano”.

Un passaggio iniziale del discorso consente di comprendere bene la natura dell’attuale governo: «Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza. Siamo cittadini di un paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato».

Lo stile di comunicazione

Lo stile comunicativo del nuovo presidente del Consiglio  è lontano anni luce dallo stile neopopulista – di Salvini, di Grillo, di Di Maio, e financo di Conte, l’ “avvocato del popolo” – così connaturato all’utilizzo dei social media.

Tutti hanno notato l’assenza di Draghi da Facebook, da Twitter e da Instagram, e il discorso pronunciato con estrema pacatezza (e un poco di commozione) era tutto fuorché un discorso neopopulista.

È stato un discorso da “tecnico" chiamato a ricoprire un essenziale ruolo politico, che dopo un’apertura con richiami alla Costituzione e alla Repubblica ha passato in rassegna – facendo riferimento a cifre e dati puntuali – le questioni da affrontare.

Non c’è stata nessun ammiccamento neopopulista, nessun richiamo alla natura salvifica del suo operato, nessuna semplificazione; al contrario, si tratta di un discorso improntato alla consapevolezza della difficoltà del compito che lo attende, e permeato di un ‘senso civico’ o ‘spirito di servizio’ nei confronti dei cittadini che mal si attaglierebbe ad un discorso neopopulista.

Nessun “partito di Draghi”

Infine, è notorio che non vi è un vero e proprio partito di Draghi, ma vi è un gruppo di partiti – alcuni di questi variamente associabili alla galassia “neopopulista” – che lo sostengono. Non vi è una struttura partitica di cui il nuovo premier sia rappresentante, e ciò lo rende molto diverso da Salvini che ha rifondato la Lega Nord (trasformandola in una Lega nazionale, anche se con non pochi e duraturi malumori) o da Grillo che rimane il vero leader del Movimento Cinque Stelle.

Draghi è stato scelto dal presidente Mattarella proprio in virtù della sua non appartenenza ad alcun partito politico, in virtù della sua notorietà internazionale, e – la ragione determinante – perché per anni ha fatto parte dell’élite al governo delle istituzioni europee. Il governo Draghi, pertanto, nasce dal fallimento della politica dei partiti che non sono riusciti – anche a causa di comportamenti improntati alla più estrema spregiudicatezza – a trovare un accordo. E così si è profilato un governo presieduto da un “tecnico” scelto autonomamente dal capo dello Stato nell’ambito di una democrazia parlamentare.

L’anomalia italiana continua, ma in questo caso non con un premier neopopulista.

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