In Italia, il dibattito pubblico tende a sottostimare il contributo economico della ricerca. Uno studio del 2019 commissionato dalla European Physical Society stima che l’output economico delle industrie che usano le competenze sviluppate nell’ambito della ricerca e sviluppo (Research and development, R&D) in fisica ammonta al 12% del totale per l’Unione europea, ossia 1.450 miliardi di euro l’anno. È una cifra superiore a settori ritenuti comunemente molto redditizi come il commercio (4,5 per cento), le costruzioni (5,3 per cento) ed i servizi finanziari (5,3 per cento).

Un altro esempio concreto è il Web: inventato quarant’anni fa (e volutamente non brevettato) al Cern di Ginevra dal fisico Tim Berners-Lee. La ricerca già all’epoca era globalizzata e la richiesta di comunicazioni rapide ed efficienti tra scienziati portò allo sviluppo del protocollo http, che rende possibile, all’interno dei browser, l’utilizzo intuitivo e veloce di contenuti ipertestuali e multimediali sfruttando l’infrastruttura fisica della rete internet fino a quel momento utilizzata solo da esperti informatici, accademici e militari.

L’iniziale sviluppo e supporto fisico (server e apparati di rete) dell’infrastruttura che faceva funzionare il “motore” del Web è stato possibile quasi esclusivamente grazie al finanziamento pubblico prima di diventare economicamente remunerativo per il mercato e per le imprese. In Italia un ruolo di primo piano è stato svolto da enti pubblici come l’Istituto Italiano di Fisica Nucleare (Infn) e il Gruppo Armonizzazione Reti e Ricerca (Garr).

Purtroppo, l’Italia spende in ricerca (di base e applicata) solo lo 0.5% del Pil mentre la Francia lo 0.8%. Danimarca, Finlandia e Germania spendono in media l’1%, il doppio dell’Italia. Differenze altrettanto grandi si riscontrano negli investimenti delle imprese in ricerca e sviluppo, che sono solo lo 0,9 per cento del Pil in Italia contro l’1,4 per cento in Francia e il 2,1 per cento in Germania.

L’evoluzione del sistema delle piccole e medie imprese verso un modello di business orientato all’innovazione necessita di un cambio di paradigma: per costruire il futuro l’azione di governo dovrebbe compensare i ritardi delle imprese aumentando la frazione di Pil per ricerca da 0.5% a più dell’1% della Germania odierna.

Il professor Ugo Amaldi, fisico delle particelle, è uno dei maggiori scienziati italiani e ha pubblicato una proposta di rilancio della ricerca nel contesto di un documento più ampio su “Pandemia e Resilienza”, promosso dalla Consulta Scientifica (fondata dal cardinal Gianfranco Ravasi) con prefazione di Giuliano Amato

Il documento chiarisce come la ricerca scientifica di base porti benefici alla società lungo quattro direttrici: nuova conoscenza acquisita, cittadini più preparati ad affrontare i problemi del mondo interconnesso, sviluppo e uso consapevole di nuove tecnologie e di approcci innovativi.

Sono parte parte del settore ricerca non soltanto le scienze naturali, la matematica, l’ingegneria, le tecnologie, la medicina ma anche le scienze sociali, le discipline umanistiche e l’arte al fine di portare la società italiana al superamento della vecchia contrapposizione tra cultura umanistica e scientifica sempre più necessario per affrontare la complessità del mondo globalizzato.

Ho trasformato il documento Amaldi in un thread su Twitter perché, a dispetto del molto rumore prodotto sui social da alcune minoranze anti-scientifiche e complottiste, sono convinto che esista nella maggioranza delle persone la consapevolezza che le sfide future possano essere vinte solo con una maggiore conoscenza scientifica e capacità tecnologica di una società più collaborativa e resiliente e non con ritorni al passati.

Malgrado la lunghezza (più di 50 tweet), il thread ha ottenuto centinaia di migliaia di visualizzazioni e quindi ho lanciato l’hashtag #PianoAmaldi per continuare a diffondere il contenuto del documento nella speranza che possa essere valutato dai decisori politici.

Per rilanciare la ricerca italiana il #PianoAmaldi propone l’aggiunta già al bilancio 2021 di 1.5 miliardi di euro: 1 miliardo per la ricerca di base e 0.5 miliardi per quella applicata. L’investimento va quindi aumentato del 14% all’anno in 5 anni.

In questo modo, tra 3 anni il rapporto tra le spese in ricerca e il Pil sarà al livello dello 0.8% che la Francia spende già oggi.

ei prossimi sei anni dovrà anche crescere il numero di borse di studio per i dottorati di ricerca, gli organici degli atenei e degli enti di ricerca, privilegiando i gruppi di ricerca scientificamente più produttivi secondo criteri meritocratici.

I fondi investiti nella ricerca pubblica daranno sicuramente buoni risultati: in media, un ricercatore italiano produce più lavori scientifici di alto livello (che ottengono il massimo 10% delle citazioni) rispetto ad un ricercatore tedesco (vantaggio 20%) o francese (vantaggio 30%).

Il futuro della ricerca italiana e quindi del Paese è in pericolo: negli ultimi 10 anni il numero dei dottorandi di ricerca è diminuito: meno di 9mila completano ogni anno gli studi, mentre in Francia e in Germania sono, rispettivamente, 15mila e 28mila.

I bassi stipendi fanno sì che questi (pochi) dottori di ricerca spesso si trasferiscano all’estero definitivamente con una grave perdita per il sistema Paese che spende per la loro formazione affinché poi essi vadano ad operare in economie in competizione con la nostra.

La “fuga dei cervelli” è una delle cause che rende il sistema industriale italiano poco competitivo.

Adottare il #PianoAmaldi per il governo avrebbe benefici già nel breve termine (2021) e consentirebbe poi all’Italia di costruire, nel lungo periodo, una società più resiliente e circolare, con imprese in grado di offrire agli italiani di domani professioni oggi impensabili.

© Riproduzione riservata