Poco più di 50 anni fa scoppiò in tutto l’Occidente la cosiddetta influenza di Hong Kong (H3N2), la terza grande pandemia del Novecento dopo quella disastrosa del 1918 e l’ “asiatica” del 1957-58. 

Le cifre sui morti causati da quella influenza, pur imprecise e frammentarie vista  la scarsissima informazione disponibile nelle riviste scientifiche e nello stesso data base dell’Oms, ruotano sull’ordine del milione e più. Un flagello. Eppure di quella pandemia non  vi è quasi traccia nella memoria collettiva.

Non emerge nessun ricordo traumatico, nemmeno negli Stati Uniti dove il virus colpì subito e duramente.

In Italia i morti aumentarono di colpo di 40.000 unità tra 1967 e 1969 su una popolazione di 53 milioni. E in Francia andò anche peggio. Eppure inutile cercare nei giornali dell’epoca qualche notizia.

Un cinegiornale Luce, con un tono leggero , parla di un italiano su quattro e  di  «5000 persone che sono già passate a miglior vita» (sic).

Una crisi sanitaria grave, quindi, anche se non della proporzione e globalità di oggi. Eppure allora non si registrò nessun confinamento, nessuna chiusura se non sporadica, nessuna limitazione ai movimenti , nessun intervento pubblico. 

Come ha scritto l’intellettuale francese Bernard-Henri Lèvy, qualcuno poteva pensare seriamente di chiudere noi giovani in casa, noi che eravamo ancora pieni dell’entusiasmo sessantottino, pronti a tutto pur di cambiare il mondo? Già, era impensabile.

Ora invece le reazioni in tutto il mondo, e soprattutto in Europa sono state improntate alla massima preoccupazione e a provvedimenti draconiani, peraltro del tutto simili a quelli adottati al tempo di Boccaccio.

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Perché questo cambio radicale di atteggiamento nelle autorità politiche e nelle opinioni pubbliche? In parte gioca la diffusione in questi cinquant’anni della sanità pubblica e quindi la presa in carico delle malattie e dei malati da parte delle strutture pubbliche.

I letti negli ospedali sono diminuiti verticalmente, ma in rapporto inverso all’attenzione (che però non significa maggiore efficienza) verso la cura e la salute. Lo testimonia anche l’enfasi sull’alimentazione, sul fitness, al netto di sbavature e isterismi .

Ma per capire questo anno maledetto bisogna mettere al centro una questione spinosa: il nostro rapporto con la morte. E’ stato detto più volte e più autorevolmente che l’Occidente sazio e gaudente ha rimosso la morte grazie al lungo periodo di pace e a progressi inimmaginabili delle aspettative di vita e dell’ età media della popolazione.

La malattia che falciava i vecchi (e in tempi più remoti pure  i bambini) faceva parte dello scenario abituale della “vita”.  Era normale che chi arrivava ai 70 anni entrasse in una fase critica, ormai faccia a faccia con la Grande Mietitrice.

Oggi, invece, un reparto geriatrico che non restituisca alla famiglia un ultra-novantenne florido come un giovanotto pronto a saltare i fossi viene accusato implicitamente, o esplicitamente grazie ad uno stuolo di solerti avvocaticchi, di mala sanità.

 A questa rimozione collettiva contribuisce non solo l’assenza di catastrofi come la guerra - che causò una mortalità ben superiore a quella odierna contrariamente alla stupidaggine statistica propalata recentemente per cui nel 2020 avremmo superato i decessi dei 1944 , quando gli italiani erano 44 milioni e non 61! -  ma una distribuzione anagrafica tale per cui gli anziani pesano molto di più del passato.  

Il rapporto giovani sotto i 25 anni e anziani sopra i 65 attualmente è in pareggio, in Italia: il 22 per cento ha meno di 25 anni, e il 22,8 per cento sono ultrasessantacinquenni.

Nel 1968 la distribuzione per età era completamente diversa: gli under 25 anni erano il 39,2 per cento e coloro con più di 65 anni il 10,5 per cento. Per ogni anziano c’erano quattro giovani, mentre oggi siamo uno a uno. Basterebbe questo dato, grosso modo simile negli altri paesi  sviluppati, per spiegare la mobilitazione pubblica a difesa della vita.

L’insicurezza, tipica ovviamente, delle fasce più vecchie della popolazione ha acquistato un peso che soverchia la propensione alla sfida, all’avventura, al rischio connaturata con l’età giovane.

Il baricentro della società si è spostato verso la zona grigia dove non stazionano solo pensionati derelitti e spaesati, bensì coorti di classe dirigente che non avendo svolto mestieri usuranti non denunciano nel loro fisico le stimmate di una faticosa esperienza lavorativa; sono invece nel pieno delle loro capacità professionali e godono di una invidiabile centralità sociale.  

E allora, nel momento in cui si intravede la luce alla fine del tunnel con la distribuzione delle prime dosi del vaccino, vale ricordare le parole di un grande vecchio della politica europea, l’ex ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, austero fino alla rigidità sul piano della politica fiscale ma umano, umanissimo di fronte alla vita. In una sua intervista del 14 aprile 2020 dichiarò che «non ammalarsi di Covid-19 non costituisce un obiettivo sufficiente nell’esistenza. [...] Nella vita e nel mondo vi sono problemi ben più seri del Covid-19. [...] Attenzione a non fare della salute il valore supremo».

Così come il Sessanttoto «non si curò» della pandemia di Hong Kong, anche il 2021 deve andare oltre il Covid. La vita non è, non può essere, ostaggio del virus.

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