Già nel 1909, Santi Romano, il più fascinoso dei giuristi italiani, celebrava le esequie dello stato. Assediato da sediziosi, facinorosi, sindacalisti in armi, capitalisti senza scrupoli né amor di confine, la più formidabile creazione dell’età moderna sembrava destinata allo smottamento. La reazione non fu quella di un’umile presa d’atto, assieme al levar di tende dell’imberbe amministrazione pubblica, ma la costruzione di apparati statali ancora più nerboruti, autoritari, totalizzanti.

Eppure, questa è una storia che si ripete ben più che due volte e ben oltre la tragedia e la farsa: sembra inscritto nel genoma dello stato un cupio dissolvi che culmina sempre in un’egotica ipertrofia. Sono almeno due secoli che, proprio quando lo stato sembra sul punto di morte e scorrono carsiche lacrime di orfani senza eredità certa, ci si rende conto che in verità si tratta di un ipocondriaco Argante che fa prima testamento per intronarsi poi novello medico.

Eppure, lo stato non muore mai, né probabilmente morrà a breve Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato (Nottetempo 2022), di Paolo Gerbaudo, sociologo e teorico politico alla Scuola Normale Superiore di Pisa e al King’s College di Londra, prova a decifrare il codice segreto di questa reviviscenza e l’associa a quello che, ad avviso dell’autore, è il genoma della statualità.

Dopo la fine della storia

Il notissimo congedo dalla storia, dopo il 1989, valeva come cifrario di un nuovo orizzonte di vita: ci si illudeva non ci fosse più bisogno di puntellare i confini con gli eserciti né di minacciare il mondo di tempeste nucleari. Il pianeta si votava a una nuova era di iperconnessione, di scambi fluidi, transizioni e transazioni che non avevano più da curarsi degli uffici doganali.

Circolava euforico un globalismo millenarista e redentivo, foriero di una pace perpetua. La sbronza collettiva vedeva nello stato l’ammennicolo più ingombrante dei tempi andati, colpevole di insopportabili lungaggini amministrative e del soffocamento dell’iniziativa privata. Lo stato e i suoi confini fermi non erano che un pezzo di storia della cultura. Ma anche le illusioni collettive, come spiega Gerbaudo, prima o poi devono fare i conti col principio di realtà. A fronte delle esternalità negative dei processi in atto, le parti esposte ai danni erano troppe e si sono ritratte.

È così venuto riemergendo il grande sconfitto di fine Novecento: lo stato, infatti, ancor oggi sembra l’unica entità politica che sappia unire quei due poteri che ogni narcisista un poco trasparente a sé stesso sa in cuor suo di desiderare sopra ogni cosa: signoreggiare incontrastato in forza della capacità unica di dare e ispirare sicurezza.

Controllare e proteggere analizza così queste nuove esigenze diffuse, tutte imperniate su una sorta di baratto scoperto: tu, stato, ci assicuri protezione e sicurezza, mentre noi, dal canto nostro, torniamo obbedienti e felici come quando la mutua passava i bagni termali e c’era acqua.

Gerbaudo analizza la diffusione ramificata di questo neostatalismo, che ha chiuso la partita con le precedenti “ere ideologiche”, cioè il liberalismo classico, la socialdemocrazia e il neoliberismo.

Uno spunto, questo, di grande interesse: il baratto di cui sopra si consuma su termini e in campi del tutto nuovi. Lo stato non protegge più i diritti individuali dalle aggressioni esterne, come volevano i rispettosi protocolli liberali. Non promette l’equilibrio irrealizzabile tra libertà degli antichi e dei moderni tramite la sintesi di diritti individuali e redistribuzione materiale – l’alchemica sintesi degli opposti che stava al cuore degli esprimenti socialdemocratici. E di certo lo stato non è più disposto a ritirarsi nella figura modesta del “regolatore”, che assicuri il solo rispetto dei patti tra privati.

Rispetto ai compiti tradizionali, sottolinea Gerbaudo, allo stato di oggi si chiede di più: essere «innovatore e investitore, e pure controllore, protettore e pianificatore; uno stato che possa far fronte alle molteplici cause di ansia, vulnerabilità e incertezza che attanagliano la nostra società».

Proteggere e consolare

Sicché, è uno stato sovrano che però gioca non solo sul piano del potere ma anche della psicologia: chiede una consegna fiduciaria da parte di cittadine e cittadini perché sa mettere al riparo dalle crisi del debito, dalla diffusione dei virus, dalle invasioni straniere e nei casi migliori anche dalla noia.

Non solo protegge, ma pure consola. Secondo Gerbaudo, questo balzo all’indietro, impastato di un più intenso egocentrismo, ci espone a un rischio colossale: ora che tutte le alternative sembrano sconfitte, e solo allo stato possiamo consegnare le nostre angosce, si rischia di lasciare mano libera a un controllo asfissiante.

Il rischio è che lo stato soffra di una claustrofobica ossessione per il controllo, che potrebbe finire col soffocare. È per questo che, con una formula dall’effetto proprio di una piccola scossa elettrica che confonde piacere e dolore, Gerbaudo scrive che «è nostro dovere tentare di comprendere». Imperativo non da poco conto, questo dovere di comprendere, persino più forte e netto del richiamo kantiano all’uscita dallo stato di minorità, esteso a chi al tempo non conosceva ancora i Lumi. Dobbiamo comprendere lo spirito dei tempi, ci viene detto, per non farci fregare dai rigurgiti totalitari.

Questa la presa di coscienza che sola può riportare lo stato nelle mani di chi ne assicura la legittimità, cioè i suoi cittadini. La mistica statualista di Gerbaudo, in tal senso, è tutt’altro che modesta: invoca «uno stato democratico, ma al contempo energico e risoluto, uno Stato che controlli il mercato e protegga i cittadini e l’ambiente in cui vivono».

Chi è ancora persuaso del fatto che lo stato fu dall’inizio un progetto zoppo, vede in questo richiamo una sorta di appello al Cielo. Ma non c’è dubbio che, come tale, è appello evocativo e suadente. Lo si consiglia pertanto senza esitazione anche a chi pensi che, vivaddio, lo stato non è il destino della democrazia e che il neostatalismo sia l’ennesima puntata di uno scontro atavico tra forme politiche che si ripete, almeno nella provincia occidentale, da quando qualcuno ebbe l’ottima idea di inventare il diritto.

© Riproduzione riservata