Dove va l’Occidente, se l’Occidente ancora esiste? Il Covid ha accentuato due tendenze già in atto. L’ascesa della Cina e del suo modello di «capitalismo autoritario». La divergenza, dentro la comunità occidentale, fra gli Stati Uniti e l’Europa. Al fondo di queste due tendenze troviamo l’incapacità degli Stati Uniti di esercitare una leadership mondiale quando è esplosa la pandemia, con la presidenza Trump che ha oscillato tra la guerra fredda alla Cina e il negazionismo. L’Europa invece, dopo i tentennamenti iniziali, ha saputo dare una risposta più efficace e per molti inaspettata.

Con l’accordo per il Recovery Plan, l’Unione ha innanzitutto rafforzato la propria coesione interna: è stato possibile perché il capitalismo renano si è convinto dell’importanza di investire nei paesi del Sud, per la sua stessa prosperità; perché in Italia c’era un governo europeista; e perché dell’Ue non fa più parte il Regno Unito, a fare da grande freno (altro che Olanda!). Ma non solo.

Con l’accordo di luglio l’Europa ha iniziato a disegnare una vera e propria politica industriale, a immaginare il futuro. Non a caso il piano si chiama "Next Generation”.

Stiamo riscoprendo la programmazione economica. A debito peraltro, con gli eurobond: un cambio di paradigma che sembrava impossibile fino a qualche mese fa. L’Europa ha ora l’ambizione di imprimere una direzione al suo capitalismo, al suo modello di sviluppo: verso la riconversione ambientale, l’innovazione digitale, la sostenibilità sociale.

Sono questi tre gli assi portanti del Next Generation Eu, cui si può aggiungere, con il nuovo Mes, il meccanismo europeo di stabilità (non a caso molto diverso dal passato), la sanità, un grande settore ad alta innovazione (si pensi alle biotecnologie, alla genetica) e fondamentale per la qualità della vita. Il tutto con politiche espansive, tipicamente keynesiane.

La svolta del discorso di Ursula

Il discorso di Ursula von der Leyen al Parlamento Europeo ha reso bene l’idea del cambio di paradigma in corso. Aggiungendovi un tassello in più: nei toni così netti in difesa dei diritti Lgbt, e poi nella condanna dei regimi autocratici ai nostri confini, l’Europa ha chiarito che il suo modello di sviluppo è incentrato sulla difesa dei diritti umani, complessivamente intesi (civili, sociali, ambientali).

Questa impostazione viene oggi fatta propria, beninteso, non soltanto dal mondo progressista europeo (i Socialisti, i Verdi), come era più prevedibile, ma anche (pur con maggiori contraddizioni) dall’area di centro e centro-destra: la Von der Leyen e la cancelliera tedesca Angela Merkel sono esponenti di punta del Partito popolare europeo, Emmanuel Macron lo è del mondo liberale. È questa la grande novità.

Oggi le principali classi dirigenti europee convergono verso un modello di sviluppo che si prefigge, per dirla in breve, di governare lo sviluppo tecnologico in direzione dei diritti dell’uomo, e dove l’intervento pubblico (come programmatore, ma anche come vero e proprio attore nei settori strategici) si affianca al mercato per superarne i limiti e orientarlo al benessere e alla qualità della vita: assicurando così più giustizia sociale, una migliore protezione dell’ambiente e anche più innovazione.

Su queste basi, la nuova Europa potrà forse aspirare a una leadership globale: sul piano dell’innovazione ma anche della democrazia e della visione del mondo, dai diritti umani all’ambiente, alle relazioni internazionali (cooperative e non muscolari).

Sul piano del modello di welfare, della sanità pubblica, di un’istruzione di qualità accessibile a tutti, della tassazione progressiva: per ridurre le disuguaglianze e così anche la fascinazione populista. Non sappiamo se fra un mese e mezzo il prossimo presidente americano sarà Joe Biden (sostenuto anche dall’ala socialista del Partito democratico, a differenza di Hillary Clinton nel 2016), o se rimarrà Trump.

Non sappiamo cioè se gli Stati Uniti potranno diventare alleati per questa prospettiva, o se invece la nuova Europa sarà più sola nel campo del "capitalismo liberale”. Dobbiamo sapere, però, qual è la posta in gioco.

La posta in gioco

Sorprende, rispetto all’enormità dei cambiamenti in atto, l’arretratezza del dibattito pubblico in Italia. Tantopiù che il nostro governo, e al suo fianco gli esponenti italiani nella Commissione (Paolo Gentiloni) e nel Parlamento europeo (David Sassoli), hanno contribuito in modo determinante alla svolta europea. E tantopiù che il nostro paese avrebbe tutto da guadagnarci: la nuova strategia europea può essere la chiave per superare i nostri mali storici.

Eppure da noi il dibattito appare fermo agli schemi del passato. Qualche esempio. Lo Stato italiano, di fronte al Next Generation EU, deve tornare ad avere una capacità progettuale e di investimento: per questo la pubblica amministrazione deve essere non solo riformata, ma anche rafforzata, andando in direzione esattamente contraria a quanto fatto negli ultimi trent’anni (quando il pubblico ha perso competenze e capacità progettuale).

Nei settori strategici, dal digitale all’ambiente, l’intervento pubblico non può più essere un tabù: semmai, di nuovo, bisogna porsi il problema di come renderlo efficiente, magari cominciando a cercare di coordinare quello che ancora c’è di imprese pubbliche e che funziona (e in sinergia con le imprese private: pensiamo alle infrastrutture per l’auto elettrica, o alle opportunità dell’idrogeno).

Né certo può essere un tabù un piano ambizioso per colmare i divari territoriali e di genere che affliggono il nostro Paese (anche perché è proprio per questo che riceviamo così tanto dall’Unione Europea: abbiamo un reddito pro-capite più basso e un tasso di disoccupazione più alto della media, e questo per la condizione delle donne e del Sud); o un piano altrettanto ambizioso per favorire la ricerca e l’innovazione.

Significativo è poi che molti non abbiano colto l’opportunità e la natura del nuovo Mes: un grande investimento, a debito, nella sanità pubblica; tutto il contrario del rigore liberista.

Da noi invece c’è chi insiste per utilizzare gli aiuti europei in modo improprio, per ridurre le tasse, altri invece vorrebbero dispendere i fondi in mille rivoli, come fossero manna dal cielo che non dà seme.

Peraltro, queste due strategie potrebbero coincidere e forse stanno già convergendo: si finanziano con il Recovery le spese dei ministeri già programmate, liberando risorse per ridurre le tasse. E allora sì che si sarebbe persa un’opportunità storica (il nostro maggiore problema non è la pressione fiscale).

L’Italia declina ormai da più di vent’anni, per incapacità di fare innovazione e politica industriale, per il mal funzionamento della burocrazia e per le sue disuguaglianze che bloccano la società.

Ora si apre un’occasione forse irripetibile, per rompere i ceppi del declino che ci stanno stringendo. Ma bisogna avere il coraggio di pensare il "domani”, di programmare e guidare lo sviluppo capitalistico. Come sta avvenendo in Europa.

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