Ho saputo fin da bambino che prima o poi avrei dovuto scrivere – più o meno volentieri – la storia della mia famiglia trasferitasi nel secolo scorso, insieme a tante altre, dal Norditalia a sud di Roma durante il fascismo per colonizzare le paludi pontine appena bonificate: un esodo anche doloroso che coinvolse trentamila persone originarie del Veneto, del Friuli e del Ferrarese.

Era una corvée lasciatami ancora prima che nascessi da mia nonna che – sovrana incontrastata del podere affidatoci in Agro Pontino – appena arrivava un bambino nuovo al mondo, fosse un figlio o un nipote o il figlio d’un nipote, lei subito gli assegnava la sua mansione, il suo ruolo, il suo specifico lavoro: «A te le galline, a te l’orto, a te le bestie al pascolo, a te l’albio da riempire». E guai a chi sgarrava.

A me – nato appena quattro giorni dopo che lei era morta – deve avere evidentemente detto, prima di andarsene: «A te la storia nostra e dei nostri dolori: va’ che niente vada perso. Questo è il lavoro e compito tuo».

Io però me ne sono reso conto a sei anni – nell’estate del 1956 – quando lì in campagna una mia cugina, diplomata da poco maestra, mi ha insegnato a leggere e scrivere, e a settembre ho poi dato l’esame di ammissione alla seconda elementare.

È stato lì – man mano che compitavo le prime parole e nel tempo libero seguivo incantato mio zio Iseo in stalla tra le vacche, o sui campi a raccogliere il fieno, e lui ogni tanto narrava narrava – che ho sentito dentro di me la chiamata: dovevo io fermare sulla carta i suoi racconti perché non andassero persi nel tempo. Lo dovevo a lui, a mia nonna, ai nostri morti. Come un debito. O una condanna.

Procrastinare

Per più di trent’anni mi sono però sottratto al compito. Rimandavo in continuazione: «Domani, domani! Allontana da me questo calice, Signore, almeno per un po’». Non che non ci pensassi. Il rovello era sempre dentro – «Debbo scrivere, debbo scrivere!» – e anche nel Sessantotto, in mezzo alle piazze a fare casino o avanti e indietro sull’autostrada per Milano con l’autostop, ogni tanto mi dicevo, proprio mentre accadevano le cose: «Ah, questa ce la devo mettere per forza».

Ma intanto vivevo e basta – altro che scrivere – solo amici, politica, moglie, figli, lavoro di notte in fabbrica, costruzione di giorno della casa, lotte e sindacato. Poi nel 1986 è morto mio padre e, come se prima d’andarsene m’avesse detto anche lui: «Adesso basta! È ora che diventi grande», a trentasei anni ho accettato la mia croce e finalmente ho cominciato.

Certo anche prima non è che avessi mai smesso di pensarci; ho sempre letto e studiato con la mente rivolta alla corvée che m’aspettava: «È inutile che scappi». Da Steinbeck al Mulino del Po, dal Dottor Živago al Placido Don, oramai m’ero convinto che dovesse venire una cosa proprio come i tre volumi del Mulino di Bacchelli: cento anni di storia attraverso le vicende di una grossa famiglia di contadini poveri – prima socialisti, poi fascisti, poi chi comunista e chi democristiano – susseguite nel corso di più generazioni.

Una cosa però è avere delle idee in testa e un’altra è realizzarle: «Tutto sto lavoro?» mi dicevo spaventato. «Quando finisco? E dove e come incomincio?». Così per non sbagliare – ma forse pure per ulteriormente rimandare – ho iniziato a ritroso: «Faccio prima le storie di fabbrica (Mammut, Palude, Shaw 150), che le ho più fresche in mente e sono anche più brevi. Poi si vedrà».

Scrivere a quarant’anni

A quarant’anni intanto avevo approfittato di un periodo di cassa integrazione per iscrivermi all’università e laurearmi in lettere. Uscito poi dalla fabbrica ho scritto Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, che è un romanzo un po’ più corposo, ma pure questo ce lo avevo già pronto in testa, trattandosi degli amori, le lotte e l’autostop di quand’ero giovane: gli anni Sessanta e Settanta, fino a quelli “di piombo”.

Contemporaneamente però, in previsione sempre dell’erigendo Mulino del Po dell’Agro Pontino, andavo avanti con lo studio e ricerche di storia delle bonifiche, dell’architettura, dell’urbanistica e delle cosiddette città nuove o di fondazione di età fascista. Così mi sono poi usciti i saggi – tra il 2003 e il 2008 – di Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce e subito a ruota finalmente, nel 2010, Canale Mussolini.  

È qui che comincia la saga dei Peruzzi: nel 1904 a Copparo a nordest di Ferrara, a due passi dal Po, quando mio nonno carrettiere – o meglio: nel libro è il nonno dei Peruzzi – viene arrestato e incarcerato insieme al Rossoni, durante un moto contadino. Da lì inizia la lunga serie di avventure e sventure – la dialettica degli eventi – che costringerà lui e i suoi sedici figli, tra amori, dolori, guerre e contrasti vari, a emigrare in Suditalia, nell’Agro Pontino, e a partecipare attivamente alla fondazione di Littoria (nome cambiato poi in Latina) e delle altre nuove città, borghi e villaggi in un territorio fino allora malarico e deserto.

Dopo Canale Mussolini – che dal 1904 arriva al 1944, quando la seconda guerra mondiale distruggerà le opere di bonifica, le case, le città, i villaggi, con tante perdite nelle famiglie – ho poi scritto Diomede, una sorta di Canale Mussolini parte seconda che dalla sanguinosa guerra civile per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo passa finalmente per la pace, la libertà, la democrazia e, soprattutto, l’epica del lavoro di un nipote Peruzzi, il rosso di pelo Diomede, che con subitanei e oscuri arricchimenti darà luogo alla ricostruzione di Latina già Littoria e del suo territorio.

Il progetto resta quindi quello delineato in gioventù: seguire man mano i Peruzzi lungo lo scorrere di un secolo, dal 1904 al 2004. In corso d’opera però qualcosa è cambiato: non ce l’ho fatta a chiuderlo in tre volumi. Se Canale Mussolini aveva coperto quarant’anni, Diomede è invece riuscito a coprirne di fatto – salvo qualche proiezione – solo dieci. Fino, grosso modo, al 1954.

I libri sono esseri strani, non è che li porti dove vuoi tu. All’inizio magari pensavi: «Ci metto questo e quest’altro, parto da qui e arrivo là». Ma una volta cominciato, chi comanda è lui: la storia se ne va dove pare a lei, ogni personaggio fa quello che pare a lui, o che almeno è conseguente dalla sua natura e da ciò che via via gli capita. Così tu – se vuoi essere altrettanto onestamente conseguente – non puoi che andargli dietro e basta: «Va bene, fate quello che volete».

Così nel terzo libro della saga, La strada del mare, mi sono ritrovato ancora negli anni Cinquanta: 1954 per la precisione, quando zia Santapace Peruzzi, che ha sposato il Benassi, si trasferisce con una barca di figli – Otello, Manrico, Violetta, Accio e gli altri – nella casa nuova “in mezzo alla palude”.

Tutti i Peruzzi si danno da fare, partecipano al boom economico e, mentre si cominciano a profilare i primi cenni del benessere, Otello Benassi va a costruire quella strada del mare che, con esiti assai imprevisti, porterà a Latina già Littoria anche Audrey Hepburn, Jacqueline Kennedy e il suo povero marito, destinato di lì a breve a morire assassinato a Dallas. La strada del mare si chiude quindi lì, nel 1963.

«Mi restano gli anni Sessanta», m’ero detto, «poi di corsa gli Ottanta e il Duemila. Altro che tre libri in tutto, qui ce ne vogliono altri tre». Per fortuna però – appena chiuso la Strada del mare – mi sono reso conto che il quarto c’era già: era Il fasciocomunista, con Accio Benassi che contro tutto il mondo, contro sua madre e contro la sua famiglia attraversa gli anni Sessanta e Settanta fino, purtroppo, a quelli “di piombo”.

Il comandamento di mia nonna

Mi rimangono quindi gli ultimi due, se ce la faccio. Anche perché oramai sono vecchio e stanco. È da quando avevo tredici anni, in fin dei conti, che lavoro: dal 1963 all’Hotel del Mare (vedi Il fasciocomunista).

Dice: «Vabbe’. Ma il comandamento di tua nonna?»

– Ahò! Ma io ne ho settanta mo’, mi sarei pure stufato.

Però vediamo, va’… Non si sa mai.

P.S. – Come già premesso in Canale Mussolini, non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui siano capitate tutte le cose narrate nei libri della saga, che è quindi solo frutto di invenzione e fantasia. Non esiste però nessuna famiglia di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino – e questo è un fatto – a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che lì capitano ai Peruzzi. In questo senso e solo in questo, tutti i fatti narrati sono da considerarsi rigorosamente veri.

© Riproduzione riservata