È stato stimato che per pulire i muri di Milano dai graffiti vandalici occorrerebbero tra i quaranta e i cinquanta milioni di euro. Sono anni che le amministrazioni comunali delle città italiane si pongono il problema, tanto che nel 2011 per intervenire sulle facciate deturpate degli edifici, sempre a Milano, sono stati spesi ventiquattro milioni di euro. Non appena ripuliti, i muri tornano a essere imbrattati.

La maggior parte delle persone, perfino quelle che hanno familiarità con le dinamiche dell’arte, percepisce il graffitismo vandalico come una violenza visiva. Tra le soluzioni adottate per arginare il fenomeno c’è quella di individuare dei muri sui quali far intervenire legalmente gli artisti. Nel 2010 a Roma, per esempio, l’associazione culturale MURo (Museo di urban art di Roma) ha dato vita a un progetto che ha consentito l’autorizzazione e la realizzazione di trenta grandi dipinti su facciate di palazzi dei quartieri Quadraro e Torpignattara. Dal 2015 inoltre il comune di Roma, e nel 2020 la regione Lazio, hanno lanciato dei bandi per la realizzazione di opere di street art.

Nel 2014 il comune di Milano ha individuato oltre cento muri liberi su cui gli street artist possono intervenire senza richiedere alcuna autorizzazione. L’amministrazione si riserva però di cancellare scritte offensive a persone, religioni o organi dello stato. La richiesta di questi muri liberi è stata accolta da giovani che non hanno niente a che fare con chi lascia la propria tag per segnare il territorio. Va tenuto presente che i giovani street artist non vanno a rovinare i lavori degli altri, mentre chi lascia solo la sua firma non ha nessuna remora a farlo. Proseguendo nella sua azione di regolarizzazione del fenomeno, tre settimane fa il comune di Milano ha dato l’avvio a un ufficio dedicato all’arte negli spazi pubblici, istruendo una procedura standardizzata per ottenere la cessione degli spazi in maniera gratuita. Ha inoltre previsto che nel 2021 sarà istituito un ufficio che si occuperà di aiutare gli artisti che vogliano realizzare opere di street art.

Predisporre dei muri liberi per gli street artist non ha impedito ai vandali di continuare deturpare le città, ma in compenso ha stimolato iniziative che hanno dato vita a vere opere d’arte. In più casi però anche questi dipinti hanno subito lo sfregio di ragazzotti armati di bombolette spray, cosa che manda in bestia gli autori dei murali autorizzati. «Quella di lasciare un proprio segno su un muro con una bomboletta spray è una forma d’incontinenza, come la cleptomania che porta una persona a ricercare il brivido nel furto» dice il romano David Vecchiato, in arte Diavù, noto per i suoi grandi dipinti sulle facciate dei palazzi o su scalinate.

Legalizzateli

Come reagire allora al vandalismo dei tagger? Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del comune di Milano mira alla regolarizzazione. «La strada della repressione non porta a nulla» spiega. «Più che reprimere chi con le tag esercita atti vandalici, dobbiamo accompagnare la realizzazione positiva di opere d’arte negli spazi pubblici. Un dipinto sul muretto di un giardino può essere bellissimo se concordato tra gli artisti e l’amministrazione, che rappresenta tutti i cittadini». Ma si può normare la street art, nata come fenomeno fuori dal sistema? «Regolarizzare la street art» risponde Del Corno, «comporta il rischio di indebolire la carica polemica e di opposizione dell’opera, che nasce da una precisa visione dell’arte. Va evitato che i permessi di intervenire sui muri siano percepiti come atti di concessione, devono essere semmai un patto tra l’artista e l’amministrazione».

Ma che succede se, per esempio, senza nessuna autorizzazione, un artista come Banksy fissa con lo spray su un qualsiasi muro della città una sua immagine? «A prevalere deve essere il buon senso. Se un dipinto murale è stato realizzato senza permesso ma ha un valore artistico riconosciuto e non nuoce al luogo che lo accoglie mi attivo per regolarizzarlo».

Il centro della questione rimane la legittimità di utilizzare un muro pubblico come palestra per esprimersi con un dipinto o con una scritta. È giusto ritenere che nel caso di un intervento pittorico illegittimo si cerchino gli autori e si chieda loro di pagarne le conseguenze. Non basta impugnare un pennello o una bomboletta spray e raffigurare qualcosa per creare un’opera d’arte. In ogni caso, opera d’arte o no che sia, un tagger o uno street artist non può decidere cosa mettere sotto gli occhi di tutti senza che sia concordato con chi rappresenta la città. Bene ha fatto dunque il comune di Roma a sanzionare Geco, writer che ha invaso con il suo nome scritto a caratteri cubitali spazi pubblici e privati senza permesso.

Gli inizi

Per comprendere come si è arrivati alla situazione attuale è bene ripercorrere le diverse tappe del fenomeno, nato attorno alla fine degli anni sessanta a New York sui muri dell’East Village, dove sono apparsi le prime tag, che si sono diffuse sempre più fino a diventare invasive negli anni Settanta.

Questi elementi grafici astratti, dipinti con bombolette spray e assunti dagli autori come la propria firma, avevano l’obiettivo di affermare la presenza di un artista nel territorio. Il fatto che questi ragazzi considerassero i grandi muri a loro disposizione l’equivalente delle grandi tele degli espressionisti astratti o dei pop artist risponde a una sua logica, come risponde a una sua logica il fatto che il sogno non dichiarato di molti di loro era vedere prima o poi le loro tag dipinte su tela ed esposte nelle gallerie della città.

Se insomma le tele di Pollock o di Wesselmann erano considerate enormi rispetto all’«arte da cavalletto» degli europei – come la chiamava Clement Greenberg – l’arte sulle pareti di un edificio sovrastava quella dei gradi maestri almeno per dimensione. Questo spiega perché il fenomeno è nato a New York, luogo d’origine dell’espressionismo astratto e della pop, tendenze caratterizzate proprio dalle grandi dimensioni delle opere.

Anche quando riconducibili allo stesso artista, le tag erano sempre diverse tra loro, in modo da esprimere la creatività dell’autore. Si presentavano inizialmente «pulite», senza sbavature, e venivano rispettate dagli altri tagger, non venivano cioè «sporcate».

In un entusiastico reportage da New York pubblicato il 7 aprile 1976 sul Corriere della Sera, Goffredo Parise fa risalire alla fine del 1971 i primi “segni” tracciati con le bombole di colore spray sulle pareti esterne dei vagoni della subway. Solo successivamente, scrive Parise, appariranno sui muri nel Lower East Side di Manhattan. Sono quelli gli anni segnati dal successo della Pop art: da una parte i tagger volevano emulare il gesto veloce di Pollock, che non toccava mai la tela con il pennello (come accade a chi dipinge con una bomboletta spray), dall’altra volevano raggiungere la popolarità di Warhol.

Basquiat e Haring

Alla fine degli anni Settanta si distaccheranno da questo fenomeno Jean-Michel Basquiat e Keith Haring. Il primo è un writer, scrive sui muri poesie criptiche e aforismi che firma con il suo simbolo, una corona. La stessa che apparirà ripetutamente nei suoi dipinti per indicare la regalità dell’arte dei neri. Il secondo invece è un post pop a tutti gli effetti.

Nel 1978 Haring inizia a dipingere i suoi omini all’interno delle bacheche delle stazioni delle metropolitane, firmandoli. Il ragionamento di Haring è semplice: passa molta più gente in una stazione della metropolitana che in una galleria d’arte. Quel luogo affollato era considerato ideale per farsi conoscere come artista e far approdare dunque il proprio lavoro nelle gallerie più importanti. Sarebbe dunque un errore pensare a Haring come a un graffitista. A differenza dei graffitisti, inoltre, Haring aveva studiato in una scuola d’arte, non era un autodidatta. Con gli street artist condivideva comunque alcuni elementi formali: l’uso di una figurazione riconoscibile, la relazione con il mondo del fumetto.

Il passaggio successivo è stato la street art vera e propria, fenomeno noto anche grazie al successo di Banksy, artista che ha saputo far convivere il messaggio di protesta con la promozione commerciale. In questo senso l’opera di Banksy si differenzia notevolmente da un autore come l’italiano Blu, le cui opere non sembrano avere un risvolto commerciale. Abbiamo dunque da una parte artisti che trovano il modo di dare uno sbocco economico al proprio lavoro realizzato più o meno clandestinamente negli spazi pubblici, dall’altro artisti che si propongono come una spina nel fianco del sistema, e che per questo tendono a evitare, o quanto meno a ridurre molto, la commercializzazione del proprio lavoro.

A questa categoria appartiene anche il giovane Geco, il writer trentenne romano che ha imbrattato Roma con la sua firma e che adesso gli agenti del Nad (Nucleo ambiente e decoro) della polizia locale di Roma capitale hanno individuato e denunciato.

In quanto writer, il giovane artista romano ripete con cinquant’anni di ritardo un modo di fare arte sulla strada. Non si capisce a cosa possano portare le sue azioni, tantomeno se ne avverte una funzione eversiva, visto che gli interventi sui muri sono talmente diffusi da non sorprendere più nessuno.

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