Il primo sonetto de la Vita nuova si intitola: A ciascun’alma presa e a gentil core. È proprio con quel sonetto che Dante Alighieri, noto a Firenze come poeta emergente e come nobile che, per entrare in politica, aveva accettato di fare parte dell’”arte” degli speziali (farmacisti), chiede risposta ai «famosi trovatori di quel tempo», cioè alla comunità intellettuale. Argomento: l’amore “romantico” (che non è l’amore contrattuale del matrimonio, e nemmeno il desiderio infettato dai dardi di Eros), ma una deflagrante invenzione medievale, vitale fino a oggi.

La Vita nuova è un libro ambizioso, un misto di romanzo e poesia che raccoglie, e porta a livello più alto, la tradizione poetica, “scientifica”, iniziatica, della poesia amorosa. A Dante rispondono l’amico Guido Cavalcanti col sonetto: Vedeste al mio parere onne salute. Risponde, pare, Terino di Castelfiorentino: Naturalmente chere ogni amadore, risponde Dante da Maiano, e risponde in modo “villano”. Consiglia a Dante: «Che lavi la tua coglia largamente/a ciò che stinga e passi lo vapore/lo qual ti fa favoleggiar loquendo». Gli consiglia letteralmente di sciacquarsi le parti basse per far passare il vapore alla testa che gli fa raccontare favole.

Nessuna meraviglia. La formazione poetica di allora permetteva di cimentarsi in diversi stili: alto, medio, basso. Lo stesso Dante, in una celebre “tenzone” poetica dà del ladro, dell’impotente, del figlio di buona donna a Forese Donati. E si becca dello scroccone da Cecco Angiolieri, esule come lui.

E questa linea comico-realistica (più vicina agli sproloqui osceni di Benigni in Berlinguer ti voglio bene, che al Dante pop benigniano delle ultime apparizioni tv) si ritrova in tutta l’opera del sommo poeta: attraversa le “rime petrose”, difficili, ossessive, allucinatorie e dedicate a una donna-pietra: «E non sarei pietoso, né cortese/anzi farei com’orso quando scherza». Si ritrova in molte scene dell’Inferno. La «gente sconcia» del canto XXX, la cantonata presa da Guido Da Montefeltro, che parla a Dante sicuro che quest’ultimo non sia fiorentino, Alessio Interminelli, «col capo di merda lordo» (inferno XVIII). Atroce il XXXII dell’Inferno, in cui il sommo strappa i capelli a Bocca degli Abati, la cui pena è stare immerso fino al collo nella ghiaccia del Cocito. 

«Dante è talmente universale da essere capace di esprimersi in un latino “curiale”, come nel De Monarchia, ma è anche un autore del più crudo realismo, che ancora si dispiega nell’invettiva di San Pietro. Chi si sognerebbe mai che un credente potesse mettere in bocca a San Pietro – siamo nel XXVII del Paradiso, quindi a poco dalla fine – l’invettiva contro i papi che tralignando hanno fatto della sua residenza “cloaca / del sangue e della puzza”?», racconta Carlo Ossola.

Allievo di Giovanni Getto (che a suo tempo ha rivoluzionato la lettura desanctisiana/crociana della Commedia) autore di una Introduzione alla Divina Commedia (disponibile per Marsilio), Ossola ha da poco concluso il commento a Dante per la Pleiade. Testo in italiano curato da Giorgio Petrocchi, traduzione storica di Jacqueline Risset. Un lavoro di 1.800 pagine. Oltre a ciò, Ossola è il presidente del Comitato per le celebrazioni dantesche del 2021.

Il Dante contemporaneo

Per Ossola, il sommo si capisce meglio a partire dai nostri contemporanei che lo hanno letto, interpretato, “vissuto”: in particolare Jorge Louis Borges, Ezra Pound, Osip Mandel’štam. L’argentino corteggia, nel poeta, la vertigine metafisico-amorosa. I Nove saggi danteschi sono uno sguardo fissato sui vuoti: pause, incertezze ontologiche, volontarie omissioni storiografiche (Ugolino mangiò o non mangiò i propri figli?), “mostruosità” simbolico/figurative che aprono al sentimento della eeriness (o Unheimlichkeit, “spaesamento”). Un viaggio oltre il mondo tutto fatto per perdere, ancora, lei, Beatrice, creatura del mondo. Paradossi (a Borges piacevano i paradossi) di una lettura sapienziale-amorosa magnetizzante.

Per Ezra Pound Dante, è, letteralmente, everyman, ogni uomo, esposto alla furia dell’Inconoscibile, redimibile solo nell’affidarsi a sé.

Nel XXIII del Paradiso parla Adamo, contrariamente alla lezione solita «da te, la voglia tua discerno meglio / che tu qualunque cosa t’è più certa» Ossola legge quel «da te» come «Dante». Adamo parla a Dante, il primo uomo parla all’uomo rinnovato: «Sono andato avanti nell’inchiesta», commenta Ossola, «e posso dire che molti autorevoli manoscritti come la maggior parte dei primi incunaboli portano quella dizione (non “da te”, ma “Dante”), sia per l’autorità del Boccaccio, che ha copiato di suo pugno tre codici della Commedia, e in tutti e tre mette, in quel verso, “Dante”, ma anche per il senso che questa occorrenza dava all’opera».

Questa lettura mette in luce tutto il senso umanistico della Commedia. L’uomo archetipico si rivolge direttamente, chiamandolo per nome, all’attuale everyman. Tanto è vero che Ossola insiste molto sulle ultime parole di Virgilio a Dante, sulla sommità del Purgatorio: «Dante è ormai liberato: ha fatto tutta l’ascesa. Dice che ormai il suo è un salire pronto al volo: “al volo mi sentia crescere le penne” [Purgatorio, XXVII]. È uno che registra e augura per sé un destino migliore di quello di Ulisse che per superbia dei remi ha fatto ali al folle volo. Dante si fa dire da Virgilio: “Te sovra te corono e mitrio”. L’uomo che, esaurita «l’opera al nero» è pronto per l’avvenire. «In quei versi – spiega Ossola – è la nascita dell’umanesimo. Tanto è vero che tra gli oltre cento commentatori della Divina Commedia, chi meglio ha interpretato quel passo è stato Cristoforo Landino, il primo e il principe degli umanisti».

Coscienza politica europea

Da qui, tra l’altro, il Dante “civile”, che è stato utilizzato strumentalmente (e malamente), nei secoli, da qualsivoglia propaganda nazionale e nazionalista. Il Dante ottocentesco/risorgimentale; il Dante esaltato dal fascismo. Sta di fatto che l’idea politica di Dante, quella dei due soli: la Chiesa e l’impero, è un progetto fallimentare già dal momento della sua formulazione. Ma, fa notare Ossola, il fallimento pratico è quasi un postulato per chi ha una visione politica seria: «Non sarei così preoccupato dal fatto che Dante fosse stato un perdente: tutti i grandi teorici politici sono dei perdenti, lo stesso Machiavelli fu messo sotto tutela dai Medici, per anni, abbastanza lontano da Firenze. Lo stesso possiamo dire dei grandi trattati politici del Cinquecento e del Seicento come L’Utopia di Moro, o La Città del Sole di Campanella. In un certo senso verrebbe da dire che la buona politica è quella sconfitta».

«Credo – continua Ossola – che Dante sia il padre di un’Italia redimibile, e che egli spera redenta. Si adonta perché l’Italia non è quello che dovrebbe essere, come nel VI del Purgatorio “ahi serva Italia, di dolore ostello”. Dante è per un destino più alto d’Italia. Basta pensare ai canti legati alla missione civilizzatrice di Roma. Dal punto di vista letterario, a fortiori, crea la coscienza dell’unità della lingua italiana con il De vulgari eloquentia. Prima di lui avremmo avuto solo forme regionali: passioni e misteri in umbro, lirici in siciliano o toscano, romanzi franco-veneti. Con Dante possiamo parlare di una lingua italiana».

Anzi, spiega Ossola che «la coscienza dantesca, oltre che italiana, è saldamente europea. Uno degli scopi di questo centenario dovrebbe essere quello, ora che la Gran Bretagna ha deciso di abbandonare l’Europa, di adottare come nume tutelare di questa Europa Dante. Spero che Ursula Von der Leyen, nutrita di cultura europea, voglia pensarci. Non c’è regione d’Europa che da Dante non sia stata citata».

Il punto qualificante rimane uno, secondo Ossola. È un punto che vale anche per quest’epoca, anzi per questo 2021 che è un salto nel buio, merito di pandemia e populismi: «Nel momento in cui Dante scrive stavano finendo i grandi sistemi universali che avevano sorretto il pensiero, la politica, la religione in Occidente. Dante illustra gli “universalia tantum”, sono questi che mettono in prospettiva e ordinano il dettaglio».

L'unità della civiltà

Dante è particolarmente utile oggi perché siamo in una situazione analoga. Siamo di fronte a una globalizzazione che sembra irrimediabile, e d’altra parte ognuno ama la propria tradizione, la propria cultura, anche con fenomeni di ritorno regressivo, come i parlari dialettali che magari da due generazioni non erano più coltivati e che vengono improvvisamente riscoperti. Dante era l’uomo che meglio di tutti ha saputo comprendere questo venir meno. E dare delle risposte. Per la sua visione del sacro e dello stato, per la sua fiducia nella capacità dell’uomo. Per la sua profonda connessione con la cultura contemporanea, anche.

Per esempio di quella francese. «Mette in bocca a Beatrice nell’incontro con Cacciaguida, il finale del Lancelot du Lac, fa parlare Arnaut Daniel in provenzale. Non abbiamo prove che sia stato a Parigi per le famose tesi quodlibetales, ma è indubbio che, se non vi è stato, conosceva bene qualcuno che c’era stato. Solo chi conoscesse bene le abitudini studentesche poteva ricordarsi di passare in “vico de li strami” (Paradiso X), ovvero Rue du Fouarre, a comprarsi la paglia per metterla sui gradoni di marmo, altrimenti non si poteva resistere per il freddo durante le lezioni invernali. Poi tutta la storia della monarchia di Francia per bocca di Carlo Martello, nella Commedia, è impressionante. Dante, del resto, aveva mille ragioni di occuparsi di cultura francese. L’epistola ai cardinali è profetica. È vero che Petrarca scriverà l’epistola politica contro l’”amara babilonia”, cioè la corte papale di Avignone, ma già Dante ne vede i sintomi. E richiama i cardinali al dovere di difendere Roma. Una delle pietre miliari del Dante “francese” è il Trophée. Cita troppo bene questi luoghi per averne una cultura di sentito dire. Non abbiamo prove inconfutabili che sia stato in Francia, ma è più verosimile che ci sia stato piuttosto che non ci sia stato» conclude Ossola.

Rilevante anche il legame con la cultura mediterranea. Non è un caso che Ossola abbia curato il libro di Miguel Asín Palacios, Dante e L'Islam. «Mi sembrava doveroso non esercitare una censura postuma su un libro che ha avuto enormi meriti. Dante, nel Convivio, pur non conoscendo l’arabo, cita il De Anima di Avicenna, e si mostra attento a quella tradizione, mediata da Alberto Magno e Tommaso. Il secondo grado di interesse (messo in luce da Maria Corti) è il fatto che Brunetto Latini era alla corte di Alfonso il Savio quando questi faceva tradurre, dai sapienti ebrei poliglotti, il Liber scalae Machometi, il viaggio di Maometto si può accostare all’ascesa di Dante. Il terzo elemento, più recente, è che questo Liber scalae è stato trovato nella bibliotechina di un frate a Bologna negli anni in cui Dante frequentava lo studium bolognese» spiega Ossola. E aggiunge: «È possibilissimo, infine, che “dolce color d’oriental zaffiro” non sia, come dice Borges, una tradizione che riporta a Le mille e una notte, ma una tradizione che riporta al commento di Maimonide all’Esodo.

Le culture del Mediterraneo erano molto più unite di quello che siamo disposti ad ammettere oggi.

Basterebbe pensare al commercio di Venezia e di Livorno. Nulla si capisce se non si pensa a queste rotte veneziane che arrivano in Medio Oriente servendosi di interpreti ebrei a Salonicco. E questo ci priva di una lettura adeguata se non delle fonti almeno dell’orizzonte culturale della Divina Commedia.

Dante Alighieri (1265-1321), ca 1529. (Heritage / AGF)

Singolare il fatto che, dal Cinquecento in poi, Dante sia stato messo sotto tutela dai puristi della lingua italiana: Pietro Bembo definiva la Commedia: «Un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato». Da qui l’idea di “purificare”, “normalizzare” la lingua dantesca. «Questo è l’inizio del petrarchismo italiano, che si avvale di una lingua più levigata, più selezionata, più cantabile. La stessa cosa si riproduce nel gran dibattito di fine secolo XVI, patrocinato in particolare dalla Crusca – ma c’era anche il padre di Galileo Galilei – tra Ariosto e il Tasso. Coloro che sono per l’Ariosto, cioè per la sua lingua leggera, levigata, come ha notato giustamente Italo Calvino, avversano lo stile più tormentato del Tasso, preoccupato – come Dante – degli universali, basti pensare alla sua ultima opera, Il mondo creato. Quando la poesia è filosofica è certamente più complessa della poesia lirica. Certo è che Dante, anche quando è comico, inclina a una comicità che non è ridicola. L’unico che in qualche modo si sia veramente avvicinato a Dante è Gioacchino Belli, perché ha saputo scegliere il registro comico senza farne soltanto il luogo del ridicolo. Da questo punto di vista i due autori, fatte le debite proporzioni, si assomigliano».

Quindi, ancora, un richiamo all’unità della civiltà. Con un forte radicamento nei classici, sacri o meno, e con agganci che partono dall’Europa e arrivano nel Mediterraneo. Una estensione di toni (dal tragico, al “dolce”, al dottrinale, al comico, alla parolaccia) che già precorre Shakespeare. Ma soprattutto la coscienza molto chiara di un discorso che si attua in un momento di crisi, di caduta dei valori, di esilio.

Mistico o umanistico?

Non a caso Primo Levi, nel momento più critico di Se questo è un uomo, recita versi danteschi ad Auschwitz. E non è un caso, parimenti, se per Osip Mandel’štam, perseguitato dalle istituzioni, poeta in perenne esilio politico, privo di tutto, Dante è il Grande Esiliato a cui fare sempre riferimento: «Una prima risposta potrebbe essere il verso che Mandel’štam sceglie per iniziare la sua Conversazione su Dante. Da Inf XVI: “Così gridai con la faccia levata”. È l’erompere della protesta, il grido di libertà. Bisognerebbe leggere insieme – solo parzialmente sono tradotte in italiano, le poesie, perché i Quaderni di Voronež e i Quaderni di Mosca sono, in non pochi versi, riscritture della Commedia. C’è uno “scendere e salire l’altrui calle” che Mandel’štam rende ancora più acuto, immaginando gli spigoli taglienti delle facciate di quei palazzi ai quali Dante deve bussare cercando il pane dell’esilio. Mandel’štam ha enormememte contribuito alla fortuna di Dante. Dopo di lui è difficile, se non impossibile, leggere Dante, se non partendo da questa sua identità di esule che grida la libertà, anche con tutto ciò che questo comporta, di persecuzione, di povertà».

Resta il nodo che si rivela centrale per tutte le possibili letture dantesche. Mistico o umanistico? Grazia (forza ascendente/Trascendente non data dall’uomo) o “virtute”? Ossola è dichiaratamente per una lettura umanistica di Dante. Che dire allora di versi come: “La concreata e perpetua sete/ del deiforme regno cen portava/ veloci quasi come il ciel vedete/ Beatrice in suso e io il lei guardava; / e forse in tanto in quanto un quadrel posa/ e vola e da la noce si dischiava/ giunto mi vidi ove mirabil cosa/ mi torse il viso a sé […]” (Par. II) . L'idea che ci sia una forza che, con velocità estrema (quella del “quadrel,” freccia di balestra a punta quadra, appunto velocissima) attira verso l'alto sarebbe la prospettiva guida.

Trascendenza

Come non ipotizzare che tutte le “torsioni”, anche di natura comica, a cui Dante sottopone la neonata lingua Italiana siano l’emergere, ontologicamente dinamico, di una Trascendenza? E soprattutto come non notare che la cultura di riferimento di Mandel’štam è ortodosso/bizantina, quindi fa pensare, come ha esemplificato Pavel Florenskji nel suo Le porte regali, alla presenza continua di un irrappresentabile che deforma la prospettiva naturalistica?

«Domanda molto bella – risponde Ossola – la mistica ha una forte tradizione medievale europea e anche italiana, con Iacopone da Todi. Resta però il fatto che Dante non è un cultore del nulla, della mistica negativa, ma è un cultore della precisione, della parola scolpita, della definizione chiara. Quando non ha le parole le inventa. Ma tutte al positivo. Ammetto che coloro che hanno pensato a una sorta di slancio mistico, per accedere alla visione della Trinità (ultima e non minore Anna Maria Chiavacci Leonardi) hanno buone ragioni per farlo. Quando Dante dice: “Non sono Enea, non sono Paolo”, da un lato dà testimonianza di una elezione eccezionale che ha avuto, ma questa elezione non lo autorizza all’identificazione. Il punto a cui accede è che il centro della Trinità gli pare “pinto di nostra effigie”. Ed è una visione cristologica profondamente incarnata. La commedia è un poema dell’incarnazione. Nel Protevangelo di Giacomo c’è una perìcope molto interessante: «Io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai nell'aria e vidi l'aria colpita da stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai sulla terra e vidi un vaso giacente e degli operai coricati con le mani alla ciotola: ma quelli che prendevano non prendevano, quelli che prendevano su il cibo non l'alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano; i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto». Ma, poi, conclude il Protevangelo, «tutto riprese il corso di prima».

Dopo l’istante del miracolo e della meraviglia, riprende, per tutti gli uomini, il corso del tempo.

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