Pubblichiamo la trascrisione di parte dell’intervista inedita di Paolo Di Paolo al poeta ucraino Ilya Kaminsky. Il video integrale sarà proiettato stasera alle 20 a Salerno, nell’ambito di SalernoLetteratura. Il festival, arrivato al suo decennale, è dedicato quest’anno al tema “La felicità, la rivoluzione”. Fino al 25 giugno, sotto la direzione artistica di Di Paolo e di Gennaro Carillo, proporrà quasi duecento eventi. Letteratura, politica, economia, percorsi tematici, dibattiti, spettacoli dal vivo, incontri e laboratori per ragazze e ragazzi, con ospiti italiani e internazionali.


È possibile parlare di felicità in un Paese in guerra? È una parola sensata?
Non esiste un solo modo per parlare di felicità, la felicità si può definire con tante parole, con tanti concetti. La Costituzione americana, per esempio, pretende di garantire la felicità. In realtà, però, garantisce a molti i soldi, la ricchezza. Mi hai chiesto come si può essere felici quando gli altri sono infelici, ma lascia che io ponga a te la stessa domanda capovolta: come posso io negare agli altri di essere felici?

Come si può negare a dei genitori il diritto di cantare una ninna nanna ai figli? Più di mille persone, a oggi, sono state uccise nel conflitto in corso, e certo, è strano che ci possano essere delle persone felici in questo contesto ma è anche vero che quando si parla di guerra si tende sempre a vedere, in assoluto, il peggio. Si può essere felici, per assurdo, anche nei campi di concentramento, le persone potevano innamorarsi anche durante l’Olocausto. Non è bello pensarci, ma è così. Dobbiamo lasciare alle persone il diritto di provare emozioni.

Sì, è vero, nei versi di Repubblica sorda si coglie il tentativo di raccontare la quotidianità durante la guerra. Con tutte le emozioni. Quando si tratta del dolore, come si trasforma in poesia?
La domanda potrebbe essere posta anche così quindi: cos’è la poesia? Da questo viene fuori un’altra domanda: cos’è il linguaggio? Kafka una volta ha detto che tutto il linguaggio non è altro che una brutta traduzione. Allora arrivi a chiederti: come fai a mettere qualsiasi cosa in poesia, se la lingua stessa, tutta, è solo una brutta traduzione?

Direi che i poeti non scrivono in nessuna lingua particolare: né in ucraino, né in yiddish, né in inglese, né in spagnolo, né in italiano: scrivono utilizzando la lingua dei meccanismi poetici, attraverso metafore e similitudini. Per rispondere alla tua domanda voglio anche dirti che io sono cresciuto senza apparecchi acustici, quindi la mia prima lingua non è stata né il russo, né l’ucraino, ma la lettura delle labbra. Quindi, in sostanza, un’immagine.

E le immagini rappresentano un linguaggio universale. Tutto parte dalle immagini: mentre parlo con te vedo le persone che si muovono dietro di te, che rimettono a posto i libri, un signore che dice “andiamo in spiaggia”. Sono tutte immagini, e le immagini comunicano. Possiamo riflettere su cosa sia la poesia, su cosa sia il dolore, specialmente in un libro. Quando uno scrittore è sentimentale ce ne accorgiamo, cogliamo il momento in cui sta piangendo davanti a un lettore.

Ma sappiamo anche che anche lo scrittore può commuovere il lettore onestamente. Se mi chiedessi come è possibile, come faccia, a commuovere, io ti risponderei: attraverso i meccanismi della poesia, attraverso le immagini.

Una domanda molto secca: come hai sentito di voler diventare e poi di essere diventato un poeta?​​​Siamo tutti poeti. Sai di essere un cronista, e non un poeta, quando hai una storia da raccontare. Sai invece di essere un poeta e non un cronista quando sei per la strada e noti delle cose su cui poi, tornato a casa, hai bisogno di immaginare ancora, di scrivere.

Sai di essere un poeta quando sei innamorato del linguaggio. Un poeta non ha necessariamente tutte le risposte, un poeta scopre le risposte usando la lingua come se fosse una musica. Un aspetto bello dell’essere poeti sta nel fatto che non sei mai da solo: puoi parlare, nella tua testa, con tutti gli altri poeti, anche di altri paesi, anche con poeti che sono morti, e ciascuno ti risponderà con la sua musica, con la sua melodia. È molto commovente.

C’è un tuo libro che in italiano non è ancora stato tradotto, Dancing in Odessa, che in un’intervista hai definito come una città sempre in festa. Oggi, da lontano, come la vedi?
Per rispondere alla tua domanda devo raccontarti un po’ della città, perché magari non se ne sa molto. Odessa è una città molto giovane, ha circa duecento anni ed è la prima città veramente libera di tutto l’Impero russo, la prima in cui non è esistita la schiavitù, che era diffusa e usuale a quei tempi: se ci arrivavi da schiavo, a Odessa diventavi un cittadino libero.

Arrivavano tanti migranti: ebrei, ungheresi, ucraini, era una città molto internazionale. Ai tempi sovietici divenne famosa per essere la capitale dell’umorismo: visto che non si poteva protestare apertamente, non ci si poteva opporre, per farlo si usava l’umorismo. Com’è Odessa oggi? Migliaia di persone l’hanno abbandonata in questi mesi. I cittadini sono spaventati. Le donne della mia famiglia sono scappate in Moldavia e in Romania, gli uomini invece sono rimasti a combattere, come prevede la legge.

Allo stesso tempo però le persone cercano comunque di scherzare, di fare battute, continuano a suonare musica per le strade. C’è vita, nelle strade, nonostante le sirene antiaeree. Chiedevo a un’amica che ha circa ottant’anni cosa avrei potuto fare per aiutarla, per dare una mano. Alle mie mail ha risposto: “I Putin vanno e vengono, tu però mandaci delle poesie per la rivista letteraria, stiamo rimanendo a corto”.

Torno sull’aggettivo che c’è nel titolo del libro pubblicato in italiano. L’aggettivo è sorda. A cosa è sorda la Repubblica?
Il libro inizia con l’uccisione di un giovane ragazzo sordo da parte delle autorità governative, e con la risposta dell’intera città che, a seguito dell’omicidio, si rifiuta di ascoltare le autorità stesse. All’inizio del libro la sordità è una protesta, è qualcosa che avvicina l’intera comunità.

La sordità diventa quindi il mezzo dichiarato della protesta, una risposta all’occupazione: il silenzio come forza attiva. Con l’avanzare del libro l’occupazione cambia perché cambia anche la guerra, e così cambiano anche i personaggi, che diventano più ignoranti, come succede a tutti noi quando c’è la guerra.

La domanda quindi non è tanto “cos’è la Repubblica sorda?”, ma “chi è la Repubblica sorda?” Forse, arrivato alla fine del libro, il lettore potrebbe pensare che siamo noi, qui, in occidente, quelli che abitano nella repubblica sorda. Perché li abbiamo sentiti, gli ucraini che chiedevano di chiudere i cieli, che chiedevano la no fly zone, ma non abbiamo fatto niente.

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