Sono stata una bambina mite, un’adolescente disciplinata. Qualcuno molto presto aveva detto che ero timida, schiva, e su quei commenti si erano appiattiti l’indole, il carattere. Alla scuola cattolica avevo appreso il rispetto per le cose mansuete.

Si parlava a voce bassa, esprimendo umiltà, benevolenza. Si lodava l’emulazione scema della virtù, mentre i sentimenti cattivi erano repressi, ridotti di grandezza come fogli di carta strizzati in una mano. Perciò ricordo benissimo, e con sempre maggiore ardore, tutti i momenti della vita in cui sono stata un’altra. Saprei dire, per esempio, l’anno e pure il giorno in cui io e le mie compagne danneggiammo i risultati delle olimpiadi scolastiche.

Ginocchia deboli

Avevamo 13 anni, e quel gesto ci valse un castigo terribile e un voto basso in pagella. Molte di noi mal tolleravano la competizione: sapevamo chi avrebbe brillato in velocità, chi avrebbe arrancato. Io ero tra chi doveva sforzarsi moltissimo per unirsi alle altre e per questo vivevo le gare sportive con grande afflizione.

Detestavo il sapore di ferro che mi si formava in bocca, il dolore pungente alla milza. Perdipiù avevo gambe storte, poco adatte alla corsa. Si potrebbe supporre che l’idea fosse partita da noi, quelle con le ginocchia deboli, sempre in fila alle altre, le meno inclini a gareggiare. Invece la trovata fu di E. che era la più brava. Ce la spifferò in segreto una mattina a scuola.

Disse, con altre parole: inventiamoci la nostra gara. E subito illustrò il piano: per una buona distanza avremmo corso come sapevamo, poi verso la fine le più svelte avrebbero aspettato le ultime, le avrebbero prese per mano.

Addestrate alla gentilezza

Avremmo tagliato il traguardo così: una fila di corpi vicini, vagamente replicati, come le catene di omini ritagliati dell’infanzia. Il progetto piacque a tutte. Già immaginarlo fu una rivoluzione. Erano gare importanti, assai frequentate. Una troupe televisiva avrebbe girato un breve servizio e tutti si aspettavano da noi che facessimo del nostro meglio.

Nessuno avrebbe sospettato l’imprudenza, il subbuglio. Eravamo state educate alla severità, all’ubbidienza. La nostra giovinezza aveva misure certe che ci collocavano nel mondo: unghie accorciate, gonne al ginocchio, numeri da zero a dieci per valutare l’intelligenza, il carattere.

Pure le parole avevano contorni scelti, dovevano stare dentro le righe dei quaderni, attente a non eccedere, espresse in un buon italiano che non ricalcasse il dialetto. Eravamo addestrate alla gentilezza, ma anche alla vigilanza feroce di noi e delle altre.

Sante o cadaveri?

Erano stati gli adulti a istigarci al confronto: da bambine venivamo misurate al muro insieme alle sorelle, alle cugine. Gareggiavamo per l’altezza e per chi fosse più bionda. Le madri ci lavavano i capelli con la camomilla Schultz e sognavano per noi riflessi dorati.

Allo stesso tempo ci mettevano in guardia dalla bellezza, ci passavano negli occhi la vergogna che era stata anche la loro; il dolore silente di un’isola che taceva per paura e per calcolo, che ai fischi dei maschi in strada girava la testa, abbassava lo sguardo; la rabbia di chi ancora interrogava il vento e il mare per la scelta insopportabile: sante oppure cadaveri?

Un sistema spietato

Adesso, da ragazze, la stessa vergogna, lo stesso silenzio, ci erano insostenibili. Le più audaci di noi sapevano disfarsene con grande coraggio. Raccontavano i litigi in casa sfoggiando parole proibite, insulti crudeli.

Alcune si imponevano il vomito o il digiuno, oppure tagli atroci sui polsi e sulle braccia per infrangere almeno in parte il cerchio di regole che ci teneva strette. Nei libri studiavamo le guerre dei maschi, scambiavamo le loro sfide con le nostre. Pensavamo di dover fare con le madri quello che i ragazzi della nostra età facevano con i padri.

Credevamo che bastasse la speranza di un piccolo conflitto a farci donne. Non sapevamo ancora che occorreva perdonarle, quelle madri, vittime – come noi, più di noi – di un sistema spietato, nemico alle donne. Non sapevamo che bastasse sentire una somiglianza segreta, un’affinità, per portarci alla pace.

Un nuovo modo di esistere

Perciò quel giorno, quando il fischio segnò la partenza, corremmo pure contro di loro. Corremmo contro tutti, contro tutto. Mettemmo in scena la disobbedienza, e pure l’allegria. Ci avevano chiesto di gareggiare in velocità e di tenere in conto ogni fatica per contrastare le altre; noi facemmo il contrario. Lo facemmo ridendo.

Arrivammo alla fine adeguando il passo l’una all’altra, e fu come liberarsi. Può darsi che la realtà fosse diversa, che la me adolescente peccasse d’immaginazione. Che fosse una roba da niente, una rivoluzione sciocca, senza nerbo. Però ricordo con certezza un’energia nel petto che era nuova. Un’effervescenza.

Di più: mi sembrò, mentre correvo, che i corpi vicini delle mie compagne, le mani unite, tracciassero nel mondo una linea sconosciuta. Un traguardo nostro che ridisegnava spazi e distanze, sovvertiva codici, disperdeva rituali.

Mi dicevo: ecco, per noi, un nuovo modo di esistere – vicine, sorelle. Non più rivali, ma alleate, in una gara inventata da noi: dove non si perde, dove vincono tutte.


Lorena Spampinato è autrice di Piccole cose connesse al peccato, edito da Feltrinelli

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