Chesterton diceva che chi non crede in Dio non è uno che non crede più a niente, ma uno che comincia a credere a tutto. Parlava da cristiano, ma è vero che oltre ai monoteismi ci sono molti strani culti nel mondo con migliaia di adepti di buona fantasia, che ripongono infinita fiducia nella possibilità di essere salvati da nuovi strampalati Dei.

I pastafariani, per esempio, credono nel Flying Spaghetti Monster e concludono le loro preghiere con Ramen al posto di Amen. Ci sono i cultori de Gli Invisibili Unicorni Rosa o i Googleisti, convinti che il motore di ricerca che usiamo ogni giorno sia la cosa più divina che esista. E poi c’è una religione che ci interessa particolarmente, il Beyismo, dedicato alla venerazione di Beyoncé Giselle Knowles, nostra signora dell’autostima black.

Il culto dedicato a Beyoncé, fondato nel 2014 in una Chiesa di Atlanta – la National Church of Bey – ha regole semplici e decisamente attraenti: si pratica cantando i pezzi più famosi di Beyoncé, consultando ovviamente una Beyble.

A San Francisco, nel 2017, hanno strutturato le cose ancora più seriamente grazie alla reverenda Yolanda Norton, studiosa dell’Antico Testamento e super fan di Queen B., che officia la “Messa Beyoncé” alla Grace Cathedral, dove si radunano fedeli da ogni parte del mondo. Perché le canzoni e le parole di Queen B. hanno questo potere: ci fanno sentire meno sole e più consapevoli.

Gli inizi….

La storia di Beyoncé comincia come quella di moltissime bambine: timida, piazzata davanti alla tv, cresce guardando i cartoni animati. Il suo preferito è già una profezia del futuro: Jem e le Holograms, la storia di quattro ragazze che hanno un gruppo musicale e sono adorate da milioni di fan. I colori fluo e i capelli cotonatissimi di Jem si sedimentano negli occhi della ragazzina che va alla St. Mary’s catholic school di Houston, nel Texas, e non ne usciranno più.

Ma in quegli anni nessuno ancora pensa al futuro: suo padre, Mathew Knowles, è un dirigente di una compagnia che vende attrezzature mediche e guadagna bene. Non di meno la madre Célestine (che tutti chiamano Tina), che è proprietaria di un salone di bellezza dove la bambina crescerà assorbendo i racconti delle clienti e respirando la sisterhood, la sorellanza.

È Tina, preoccupata che il suo cognome da nubile, Beyincé, vada disperso per colpa dei fratelli che non si decidono a fare figli maschi, a decidere di trasformarlo in questo strano nome di battesimo per la figlia. E Beyoncé, in cambio, le restituirà la leggenda.

Ma prima deve sconfiggere la timidezza. Ci riesce a 7 anni, iscrivendosi al talent show della scuola. Racconterà: «Ero terrorizzata, ma quando la musica è iniziata non so che è successo. Ha semplicemente cambiato tutto». Il pubblico si alza in piedi per la prima standing ovation della sua vita, lei capisce che vuole diventare una cantante e il padre inizia a pianificare il suo, anzi il loro futuro.

Nel frattempo c’è una nuova nata in casa. È Solange, a cui va tutta la stima del mondo, perché crescere con una sorella maggiore che è già una superstar a sette anni non deve essere facilissimo. L’adolescenza le vedrà distanti, ma negli anni il rapporto tra le due sorelle è stato recuperato e sono diventate inseparabili. Gli amanti del gossip ricorderanno la celebre scena in cui Solange, chiusa dentro a un ascensore con il cognato Jay-Z, fa quello che avremmo voluto fare tutte noi: lo riempie di schiaffi per il tradimento ormai divenuto di pubblico dominio.

Ma prima di tutto questo ci sono i concorsi canori locali a cui Mathew inizia a portare la figlia. Lei è un caterpillar e ne vince 35 di fila fino a quando, nel 1990, entra nel suo primo gruppo: le Girl's Tyme, sei ragazzine determinatissime fra cui arriva anche Kelly Rowland, cugina di Beyoncé. Il loro primo concerto Bey se lo ricorda molto bene: «Era a un asilo nido. C’erano bambini che stavano piangendo mentre eravamo sul palchetto. Ma in quel momento ho capito quanto mi piacesse essere in un gruppo».  

Mathew decide di lasciare il lavoro e di occuparsi a tempo pieno della carriera della figlia, addestrandola a diventare una star. A dieci anni le fa macinare chilometri su chilometri correndo mentre canta. La allena a fare quello che poi le verrà facilissimo: cantare mentre fa coreografie pazzesche senza che dal suo corpo stilli una goccia di sudore. Seguono lezioni di coreografia, di camminata e ovviamente di canto. Le fa studiare le performance di Michael e Janet Jackson, Madonna, Whitney Houston, Tina Turner. È una specie di Al Pacino in Ogni maledetta domenica, quando mostra alla sua squadra le azioni del nemico che verrà affrontato in campo per scovare i punti deboli.  

Trent’anni dopo, prima di addormentarsi, Queen B. fa ancora lo stesso: studia ma riguardando i suoi, di concerti: cerca i piccoli errori, i gesti da correggere, ripensare.

Il miracolo Beyoncé comincia da subito come una ditta a conduzione familiare. I costumi con cui le ragazze salgono sui palchi sono cuciti da sua madre Tina, come ricorderà Beyoncé molti anni dopo, ricevendo il Fashion Icon Awards nel 2016: «Quando cominciammo a esibirci con le Destiny's Child i grandi marchi non volevano vestire quattro ragazze nere e formose venute dal nulla e noi non potevamo permetterci vestiti di alta moda. Mia mamma fu rifiutata da tutti gli atelier di New York. Ma come mia nonna, usò il suo talento e la sua creatività per realizzare il sogno dei suoi figli. Mia mamma e mio zio Johnny (dio benedica la sua anima) disegnarono i nostri primi costumi e fecero ogni pezzo a mano, cucendo a una a una centinaia di perline e cristalli».

Nel 1993 le Girl’s Time firmano un contratto con la Elektra Record, ma le cose non ingranano e intanto il padre ha fatto casino con i soldi. La casa dove Beyoncè è nata e cresciuta viene venduta, i genitori si separano e lei e Solange vanno a vivere con la madre. Potrebbe finire tutto lì, ma Mathew non molla e nel 1997 arriva il contratto della vita con la Columbia Records. Beyoncè ha 16 anni e il gruppo ha cambiato nome, ora sono le Destiny’s Child: il resto è storia. Il primo atto femminista delle Survivors: trasformare il significato della parola "bootylicious", cantata 10 anni prima da Snoop Dogg e Dr. Dre.

Loro riprendono la parola, che suona machista e insultante, e ne ribaltano il senso. Così, Bootylicious (fusione tra "booty" – natiche – e "delicious" – delizioso) diventa un inno alla voluttuosità del corpo delle donne di colore, e il neologismo viene inserito nelle enciclopedie.

A questo punto potreste pensare che Beyoncé sia solo la figlia molto talentuosa di un uomo più ambizioso di lei, come una Steffy Graff o meglio, una Serena o Vanessa Williams della musica. Ma ci sono due modi per sopravvivere a un padre manager: o ti sottometti e obbedisci, lasciandoti plasmare come una creta secondo le sue ambizioni, oppure ne prendi il posto, diventando padrona del tuo percorso. Beyoncé riesce a farlo, ma solo a trent’anni.

Le motivazioni non sono nemmeno professionali, il 2011 è l’anno in cui i suoi genitori – che dopo la separazione erano tornati insieme – divorziano a causa di una scoperta che destabilizza alla radice la famiglia Knowles: il padre ha un figlio segreto. Beyoncé lo licenzia in tronco. Pubblicamente dichiara: «Mi sono divisa da mio padre solo nell’ambito degli affari. Sarà mio padre per sempre e gli voglio un sacco di bene». Nel privato però è furibonda. Sua madre Tina si risposerà nel 2015. I mariti si cambiano, i padri purtroppo no.

E, a proposito di mariti, nel 2008 si sposa anche lei con Jay-Z, e nello stesso anno esce If I were a boy. È il primo testo esplicitamente femminista e lei lo co-firma. La canzone suona romantica, ma le parole sono esplicite nel raccontare il diverso grado di libertà che la società si aspetta da un uomo e da una donna. «Se fossi un ragazzo anche solo per un giorno/ mi alzerei e mi butterei addosso quel che mi pare/ andrei a bere birra con gli amici/e a correre appresso alle ragazze/ Spegnerei il mio telefono e direi che è rotto/ così chi chiama non potrebbe controllare con chi sono a letto».

Beyoncé è innamorata del marito, ma non significa che non veda la differenza tra sé e lui: pur essendo ricca, famosissima e venerata, sente di avere addosso una pressione che riguarda essenzialmente il suo essere donna. Dover essere sempre fisicamente perfetta, con gli occhi di tutti addosso, è un peso che suo marito non deve portare. Lui può vestirsi come gli pare, perché niente di quello che indossa viene sessualizzato. Lui può spegnere il telefono per non dire con chi è, ma la società si aspetta che lei stia a casa e gli sia fedele.

La frustrazione è silenziosa, ma crescente e in un discorso pubblico sarà lei stessa, donna nera ma privilegiata, a dar voce a quelle che non riescono a farsi ascoltare: «Le donne sono metà della forza lavoro americana e prendono solo il 77 per cento dello stipendio maschile. Fino a quando gli uomini non chiederanno più diritti per le proprie madri, figlie e sorelle non ci sarà mai rispetto. L'umanità ha bisogno sia dei maschi che delle femmine, allora perché siamo considerate inferiori? Le donne sono più del 50 per cento della popolazione e dei votanti al mondo, dobbiamo chiedere di avere il 100 per cento delle opportunità».

I discorsi come questo TED saranno numerosi, perché Beyoncé non è una che si esprime solo a canzoni. Barack e Michelle Obama le chiederanno di parlare agli studenti alla cerimonia dei diplomi. E il suo speech su youtube diventerà virale. I pregiudizi di razza, di classe e di genere sono stati tostissimi da sradicare anche per lei, all’inizio: nessuno credeva a una giovane donna che si presentava come imprenditrice di se stessa.

Tanto che racconta: «Il settore dell’intrattenimento è ancora molto sessista: come donna non ho visto abbastanza modelli femminili che mi dessero l’opportunità di fare ciò che sapevo di dover fare. Alle giovani donne, le nostre future leader: so che cambierete il mondo. Siete tutto ciò di cui il mondo ha bisogno. Diventate potenti. Siate eccellenti. E ai giovani re: affidatevi alla vostra vulnerabilità e ridefinite la mascolinità. A tutti coloro che si sentono diversi: costruite il vostro palcoscenico personale e fatevi notare. La vostra omosessualità è bella, essere neri è bello, la vostra compassione è bella. Se siete stati chiamati stupidi, poco attraenti, sovrappeso, senza talento…beh, è successo anche a me. Spero che continuerete ad andare nel mondo e mostrare che non smetterete mai di essere voi stessi. Ora è il vostro momento, obbligateli a vedervi».

Solo rose quindi per questa Morgana, che trasforma in oro tutto quello che tocca? Non proprio. Il suo modo di essere emancipata non piace a molte femministe americane. Che l’hanno attaccata in passato, e la attaccano ancora. Per molte la rappresentazione della donna portata da lei è mortificante, la riduce a oggetto da desiderare e poco più. L’accusa tra le femministe è una delle più infamanti: pink washing, fare finta di essere femministe per prendersi la fetta di mercato sensibile al tema.

Nel 2014, la scrittrice, attivista e femminista statunitense Bell Hooks, dopo aver visto la sua copertina sul Time (Queen B. radiosa in reggiseno e culottes bianche a vita alta, una maglietta trasparente a scoprire strategicamente il tutto), la definisce una “terrorista”, poiché con quell’immagine esteticizzata attenta a tutti i traguardi faticosamente guadagnati fino a quel momento dalle donne nere si rende complice del sistema patriarcale.

L’accusa è incarnare l’idea di donna nera socialmente accettabile in una società di bianchi. Non tutte la pensano come Bell Hook, però. Moltissime altre vedono in Beyoncé la fautrice di una catena di sorellanza di donne nere che si sono prese il potere. Essere bellissime, sexy e super femminili non toglie serietà alle donne o al loro pensiero. Janet Mock, altra importante scrittrice e attivista, interviene infatti scrivendo: «il modo in cui ci presentiamo non è un’unità di misura della nostra credibilità. Queste classifiche di rispettabilità che generazioni di femministe hanno fatto proprie non ci salveranno dalla visione patriarcale del mondo».

Chiunque scelga la via dell’attivismo femminista impara molto presto che non si tratta di una strada comoda e si attira addosso molte antipatie. Beyoncé non sembra preoccupata e anzi marca con sempre maggiore decisione il suo posizionamento sul tema. Una frase della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, pronunciata nel discorso di We should all be feminists, viene campionata da Beyoncé in Flawless e non potrebbe essere più chiara: «Insegniamo alle ragazze a farsi piccole, quasi a nascondersi. Diciamo alle bambine “Puoi avere ambizioni, ma non troppe”. Punta al successo, ma non esagerare, altrimenti potresti minacciare l’uomo… In quanto donna devo aspirare al matrimonio come fonte di gioia e amore, ma perché questo non viene insegnato anche agli uomini?». È un manifesto. Milioni di giovani uomini e giovani donne in tutto il mondo ripetono le parole di Chimamanda.

La Single Lady, quella che in body nero e tacchi a spillo suggeriva ammiccante alle amiche di farsi mettere un anello al dito quanto prima, è decisamente cresciuta. Le dure e pure storcono il naso? Non importa. Fa più una canzone di Beyoncé per l’autodeterminazione di una donna che tanti discorsi strutturati. Fa più una Chiara Ferragni che parla di patriarcato e di revenge porn in un video su Instagram che mille saggi sull’argomento.

Beyoncé è un tipo molto preciso di femminista: è intersezionale. Per lei la questione del genere si intreccia sempre con quella razziale e con quella economica. Da donna ricchissima dello star system – con un patrimonio personale di 400 milioni di dollari – ricorderà costantemente alle ragazze di lottare per l’autonomia lavorativa e la parità retributiva. Politicamente non ha mai avuto paura di schierarsi: è democratica, ha cantato lei dal vivo il brano del primo ballo da coppia presidenziale degli Obama e alle ultime elezioni ha fatto sapere forte e chiaro per chi avrebbe votato con un boomerang su Instagram: la mascherina che indossava aveva il logo di Joe Biden e della sua candidata vicepresidente Kamala Harris.

Nel 2018, prima donna nera ad aprire il festival musicale di Coachella, canta Lift Every Voice and Sing, l’inno nazionale degli afroamericani e fa sparare a tutto volume le parole di Malcolm X. Dal palco ringrazia tutte le donne che hanno aperto una strada pagando un prezzo altissimo e le hanno permesso di arrivare lì, chiama la sorella Solange, le Destiny’s Child e poi sì, c’è spazio anche per Jay-Z.

Quell’orgoglio nero dovrà difenderlo, però. Quando viene scritturata come testimonial per L’Oreal, i pubblicitari la imbiondiscono e la sbiancano al punto da renderla quasi irriconoscibile. Nel 2013 H&M prova a fare lo stesso e un episodio analogo si verifica quando viene realizzata la sua statua clone per il Madame Tussauds, il museo delle cere più famoso al mondo: la riproduzione è la versione pallida e caucasica di una Beyoncé nella quale i tratti negroidi del volto e del corpo sono stati addolciti fino a scomparire.

In entrambe le circostanze dovrà intervenire personalmente per farsi restituire colore e somiglianza, ma come tutte le donne dovrà convivere con le sue contraddizioni: talvolta è stata lei stessa a photoshopparsi gli scatti privati per sembrare più chiara o limare il profilo afro delle sue cosce forti. Non basta essere ricche e venerate per mettere da parte i condizionamenti culturali accumulati in tante generazioni.

Ricca e venerata però lo rimane. È la cantante donna più nominata ai Grammy Awards, gli oscar della musica. Fino a ora, ne ha vinti 24. Ma potrebbe entrare nei record, perché il 31 di gennaio, alla 63esima cerimonia per l’assegnazione dei premi, concorrerà con nove candidature. Le basterebbe vincere quattro statuette per diventare l'artista donna più premiata della storia.

Come intorno al proverbiale elefante rosa, stiamo girando intorno a una questione della vita di Beyoncé che è portante: quella del suo amore con Jay-Z. Il video di Everything is love, girato nel 2018 all’interno del museo del Louvre li vede insieme, felici e potenti.

Ma quei fotogrammi sono la fine di un percorso a ostacoli dove l’amore ha dovuto passare per il tradimento, la denuncia, la confessione, le scuse ripetute e forse, se dobbiamo proprio crederci, il perdono. Jay-Z è infatti un traditore seriale, un uomo di potere che, pur non essendo particolarmente attraente ed essendo sposato con una donna universalmente riconosciuta come talentuosa e bellissima, si è spesso distratto dalle sue promesse di fedeltà.

Le botte della cognata Solange nel già citato ascensore, rifilategli proprio sotto gli occhi dell’impassibile e ferita Beyoncé, non sono niente rispetto a quello che la moglie stessa escogiterà per fargliela pagare. Perché Queen B. è una delle pochissime donne al mondo che siano mai riuscite a tirar fuori dalle proprie corna qualcosa di ammirevole. Di solito nei matrimoni multimilionari esiste un modo semplice per monetizzare i tradimenti: si chiede il divorzio e si divide il patrimonio del coniuge fedifrago.

Troppo scontato per Queen B. Lei non vuole i soldi del marito, lei vuole trasformare gli errori del marito in soldi suoi. Sui tradimenti di Jay-Z Beyoncé comporrà un album intero, Lemonade, furibondo ed esplicito, iper politico, con testi e video incendiari che sono una vera e propria dichiarazione di guerra. Se non puoi sopportarlo, raccontalo a tutti. Tre figli, anni di lavoro insieme e una crisi importante trasformata in musica fanno oggi dei coniugi Carter una delle power couple più forti dello star system mondiale. Cosa abbiamo dovuto ingoiare Beyoncé lo sappiamo, perché ce lo ha detto a ritmo di R&B. La pretesa di fedeltà, che è un retaggio patriarcale, condiziona invece ancora tanto la vita delle coppie di tutto il mondo, soprattutto quelle che non sanno cantare le corna così bene, e ci dovremo fare i conti chissà ancora per quanti anni.

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