Il ventotto di novembre, appena dopo il tramonto, una figura scende la strada sterrata a ridosso del bosco. Indossa un largo giaccone militare e scarpe di tela, avanza veloce tra sassi che le rotolano tra i piedi. La temperatura è scesa, forse nevicherà. Siamo in una valle stretta, da qualche parte nel Veneto nord orientale. Quando la luna è piena il buio precoce non rappresenta un ostacolo: i raggi si riflettono sul sentiero restituendo una proiezione terrena del cielo, illuminano la figura e ne chiariscono i contorni di ragazza. Da una sciarpa di lana cascano capelli increspati di umidità. Raggiunge un cancello in ferro battuto, infila la mano tra le sue volute, fa scorrere il chiavistello e percorre i pochi passi di giardino che la separano da casa. Sta tornando dai genitori, cui non dava notizie di sé da quasi due giorni.

La casa

Posto che la finestra del bagno sarà senz’altro sbarrata, restano la porta principale e quella sul retro. Prima di scegliere a quale avvicinarsi, si ferma un attimo e rimane a guardare. Adesso è tutto color negativo fotografico, ma in presenza di luce la casa è gialla. Si sviluppa su due piani, e in cima ha una soffitta. Di sotto ci sono un cucinino, una sala da pranzo, un salotto. Di sopra ci sono due camere da letto.

Lungo le scale di legno che collegano il sotto con il sopra si incontra il bagno (affaccio posteriore sul tetto del cucinino, ottimo per le fughe, meno per i ritorni). Tra il fuori e il dentro ci sono quaranta centimetri di pietre e calce impastata a mano.

I muri sono così spessi che ogni finestra è dotata di tre livelli di chiusura: i vetri esterni, i vetri interni e nel mezzo dei pesanti scuri di legno. Nelle crepe di questi ultimi si fa strada una lama di luce, suggerendo che, in questo momento, ci sia vita in sala da pranzo. Per il resto, la casa è muta e non ammicca.

La ragazza non ha ricordi di quale sia stato il suo ultimo pasto, ma per evitare i vecchi salterebbe senza turbamenti la cena. Valuta i dintorni, che sono orti poveri, vitigni in bilico su rive scoscese, il pollaio, le conigliere, magari il rudere nel bosco.

A quest’ultimo quasi rivolge un pensiero, ma il freddo che non si avverte camminando a passo svelto non è lo stesso di quando ci si rigira sulla terra battuta, senza neanche una coperta. Cerca un motivo per rientrare che sia diverso dalla mera sopravvivenza, qualcosa che abbia a che fare con l’umano.

Pensa che dentro, già accomodato su fogli di giornale, minutamente inserito nello scanso in basso della cucina economica, ci sarà Poffy. È tutto nero con qualche sbuffo bianco dovuto all’età. Da bambina l’ha quasi ucciso perché non sapeva che per i cani il cioccolato è veleno e, a lui, l’uovo di Pasqua sembrava piacere così tanto.

Non farsi notare

Illustrazione Pixabay

Prova ad abbassare la maniglia dell’ingresso principale, che le permetterebbe di accedere alle scale e scivolare verso la camera senza incontrare nessuno. È chiuso. Ora dovrebbe voltarsi a sinistra, girare l’angolo e raggiungere la porta sul retro. Per poi scoprirla a sua volta inaccessibile, bussare, forse chiedere scusa, più verosimilmente tacere.

Rimane invece lì davanti ad agitare la maniglia qualche attimo di troppo. Il freddo che le mangia le dita dei piedi ora deve retrocedere perché, da un innesco centrale, stanno arrivando le fiamme.

L’innesco è situato grosso modo in mezzo alla pancia, e le fiamme si sviluppano in ogni direzione senza che lei possa fare niente per disperderle. Sono fatte di una luce in presenza della quale non esistono più i dubbi, e tutto ciò che sta fuori dai confini del suo corpo è nemico.

Nel caso specifico, il nemico più prossimo ha la forma di una porta in legno e vetro, chiusa a chiave, da prendere a calci e a cui mostrare i denti. Rispondendo a quel richiamo la lampadina dell’ingresso si accende e un’ombra sfocata gira la chiave.

Senza che sia proferita parola le viene fatto segno di entrare. Il caldo della cucina economica colpisce faccia e mani, gli unici pezzi di carne esposta, con l’effetto di gelarla più del vento alpino sceso a valle. Adesso ricorda tutto. In particolare ricorda che deve stare calma e non farsi notare, quindi avanza verso la tavola apparecchiata, fingendo di non dare peso al suo piatto pronto.

Si siede concentrandosi su quel che contiene, piccoli corpi con le cosce all’aria adagiati su una poltiglia gialla e rossa. Al centro della tavola campeggia una grande ciotola di insalata, ultime foglie fuori stagione, quasi croccanti di brina.

L’arte dell’uccellagione

In autunno si mangiano gli uccelletti con la polenta, quel che offre l’orto, qualche pezzo di formaggio. I vecchi dicono che ci sono delle regole e le regole le detta la terra che sta fuori dalla casa, e così teniamo in piedi la casa e teniamo in piedi noi stessi.

Piccoli uccelli in pentola galleggiano nel loro stesso intingolo. Ci sono diverse scuole di pensiero su come catturarli. Alcuni amici verso il mare, gente che di montagna e di boschi sa poco, dicono che i padri vanno in gita apposta per cacciarli coi fucili.

Quando le madri li preparano bisogna masticare con molta attenzione, perché è facile che i denti si spacchino su pallini ancora incastrati. Ma l’uccellagione non richiede armi da fuoco, si fa col vischio.

I vecchi pestano radici e le fanno fermentare finché ne emerge una sostanza appiccicosa che spalmano su aste sottili, da appostare in prossimità degli abbeveratoi, così da imprigionare gli uccellini per le zampe e per le ali finché non muoiono di disperazione, sforzo, paura, crepacuore.

Un niente di carne aggrappata a ossa minuscole, buona per i tempi di una guerra finita trent’anni fa. Ma lei non vuole più carne inerme, e soprattutto non vuole più carne riconoscibile. Con la forchetta ricava nel piatto uno spazio in cui inserire qualche foglia di insalata.

Poffy la guarda dal suo posto d’onore: ottenebrato dal caldo non esce a festeggiare il fatto che, pure stavolta, sia tornata a casa. Però ha teso le orecchie, prodotto un verso gioioso, inumidito gli occhi per la promessa implicita di quei dolci avanzi, seppure non dolci quanto l’uovo di cioccolato che animò i suoi più remoti sogni di cucciolo.

Le regole del riscaldamento

In sala da pranzo ci saranno venticinque gradi, e nel resto della casa quattro. I vecchi tengono tutte le porte chiuse per non sprecare troppa legna. Ci sono delle regole, e in questo caso la regola è che nel cucinino si cucina, in sala da pranzo si mangia, nelle camere si dorme, in salotto ci sono la credenza delle bomboniere e i servizi di piatti buoni per le grandi occasioni.

In termini energetici questo significa che se stai cucinando ti muovi e se ti muovi ti scaldi, se stai dormendo sei coperto da trapunte di lana e se sei coperto non hai freddo, se sei nel salotto delle bomboniere e del servizio buono sei nel posto sbagliato, perché le grandi occasioni non arrivano mai. L’unica stanza degna di essere riscaldata è quella in cui si mangia, perché a riempire il corpo gelato ci si ammala e chi si ammala non produce.

Il caldo le fa tornare tutti i pensieri che credeva di aver sopito almeno due ore prima, quando dal centro si era incamminata verso la valle e l’aria dell’imbrunire pareva pulire per bene la testa. Adesso soppesa il contenuto del piatto, considerando che l’insalata è troppo verde e che a ogni morso fa un rumore fragoroso.

Fedele al proposito di non dare nell’occhio procede nel masticare con la cautela disinvolta di chi stia masticando un petardo acceso. Nel mentre, osserva il mostro che siede dall’altra parte del tavolo.

Il padre

Il pare, o padre, la guarda malevolo. Ha radi capelli bianchi, un tempo folti, ricci e scuri. Ha un corpo forte, e alto, robusto e parla poco. Vanta almeno settant’anni di presenza sul pianeta terra, pianeta che per lui ha la forma di una valle dove il sole sorge tardi e tramonta presto. E nato nel 1905, ma poteva anche essere il 1805, o il 1705.

Gli unici benefici che gli ha dato la modernità sono stati il posto alla Sade come orfano della Grande guerra e il partito su cui mettere una × quando viene l’ora di farlo. Il prato lo falcia con la falce, il bagno non gli serve perché fare quelle cose in casa e una vergogna e lui, per lui, dietro il pollaio ha quattro strette mura di cemento con un buco per terra in guisa di latrina.

Fa gli occhi dolci solo al passero solitario che vive sul trespolo. Quando torna a piedi dal lavoro, la bestia lo riconosce da in fondo alla strada: dicono che inizi a cantare ancora prima che lui giri l’angolo e lo si possa scorgere dalle finestre.

Canta, consapevole dei vermi che stanno per finire nel suo becco nero. Lei guarda il passero e pensa: appena finisco di mangiare mi alzo e ti tiro il collo. Poi aggiunge: lo sai che non lo farei mai e poi mai.

Fra gli altri talenti del padre, oltre all’uso della falce e all’eloquio con gli animali che non imprigiona nel vischio, c’è quello di zittire con lo sguardo. Lei però, di solito, invece di zittirsi lancia i piatti contro il muro e li guarda riempire la casa di rumore.

Il suo punto preferito e la parete piastrellata dietro la cucina economica, perché poche cose fanno un bel suono come la ceramica che si infrange sulla ceramica. L’ha fatto anche due mattine addietro, prima di sparire per poi tornare solo stasera, in tempo per la cena. Stante che il silenzio e molto apprezzato dai vecchi, vorrebbe chiedere all’arbusto che ancora rimesta la polenta perché abbia servito un’insalata di petardi.

La madre

Cos’hai seminato quest’anno? Perché l’insalata è così verde? La mare, o madre, è troppo alta e spigolosa per essere accessibile. Indossa grembiuli e scamiciati adatti al lavoro nell’orto. Per andare in chiesa ha qualche abito buono – sempre con le maniche lunghe, sempre con la gonna sotto il ginocchio – e un cappotto spinato di due taglie più grande.

Ha il braccio destro grosso il doppio del sinistro e le manca un seno. Tutto il tempo in cui la madre pensava di essere al sicuro per il solo fatto di non parlarle e di non toccarla, la figlia l’ha impiegato a guardare. Dunque conosce un segreto. Sa che la madre odia uccidere gli animali da cortile e pulire la cacciagione.

Ai primi fa tirare il collo da Lina la Strega, i secondi li spenna e spella con un disgusto che rende gli strappi più rabbiosi del necessario.

La geometria del formaggio

La figlia, la ragazza, sospetta che piuttosto di preparare quelle spoglie per cena la madre si mangerebbe le radici di topinambur ancora crude e coperte di terra. Invece le prepara, e poi la tedia con la regola del formaggio. La regola del formaggio ha a che fare con la geometria.

Quando in tavola arriva un gran pezzo triangolare di formaggio le prime fette vanno tagliate a partire dalla punta, fermandosi nel momento in cui il triangolo assume l’aspetto di un trapezio né troppo basso né troppo alto.

A quel punto le fette, abbastanza sottili, vanno tagliate partendo dalla base minore (quella senza buccia) verso la base maggiore (quella con la buccia), procedendo così fino a esaurimento. Ogni variazione rispetto alla regola sarà considerata una mancanza di rispetto e verrà punita con il silenzio, di fatto non cambiando nulla nell’ordine generale delle cose. La madre avrebbe voluto fare la maestra.

Adesso però è lei che vuole comandare, vuole battere il pugno sul tavolo di ciliegio e chiedere: madre, perché l’insalata è così verde? Invece non lo fa, e il silenzio sospeso sul desinare resta intatto fino a che qualcuno dice: devi andare a scrivere.

La ragazza si alza in piedi e quasi fa cascare il piatto. Guarda alle sue spalle, guarda il padre e la madre, guarda il passero solitario e guarda il cane. Si chiede chi è che ha parlato e, con la sua stessa voce, le ha intimato di andare a scrivere.

Adesso il caldo, la luce e le facce del padre e della madre la spaventano. Poffy non la spaventa, ma non basta a salvarla. Sta in piedi davanti al tavolo e i vecchi neanche la guardano: riparati all’ombra delle sopracciglia chine, staccano il pane a pezzi e lo intingono nei bicchieri di acqua e vino.

Costanza

Illustrazione Pixabay

La ragazza vede pezzi di montagna che precipitano nei bicchieri e si allontana verso il buio delle scale, verso la camera da letto. Pensa: adesso cado a terra, e infatti cade a terra. Quando si rialza è in un grande corridoio in penombra.

Ci sono il suo letto, la scrivania, il quadro e il lampadario maculato che proietta ombre familiari sul soffitto. Ci sono anche le sigarette, l’accendino, un quaderno verde e una penna. Pensa: meno male, perché devo scrivere. Dunque scrive e poi scrive e poi sente un gran scalpicciare di piedi.

È allora che vede il bambino. Sta davanti a lei, alle sue spalle c’è una donna con le gambe gonfie. China su una macchina da cucire, pesta il pedale di ferro che ondeggia e fa girare la ruota che fa girare il rocchetto che fa alzare e abbassare l’ago. Anche se è scuro, la ragazza vede che qua c’è più marmo che legno, i soffitti sono alti e le pareti sbriciolano lingue di intonaco e pittura marcia.

Lungo il corridoio si aprono cinque porte da cui proviene un vociare allegro e arrabbiato insieme. Il bambino è pieno di ossa e di nervo, grida capricci in una lingua che sembra quella della ragazza ma non lo è.

Anche la donna strepita, molla il pedale, poi afferra la forbice da sarta e la fa volare verso di lui. La ragazza non fa in tempo ad avere paura perché il bambino è già fuori. La lama si pianta su una porta traforata da liti passate. Un firmamento di buchi da cui filtrano raggi di un sole più caldo di quello che scalda la valle. Apre la porta e, mentre ripara gli occhi con le mani, una voce piccola chiede: come ti chiami?

Mi chiamo Costanza.

Al mattino, ancora annodata nel giaccone militare con cui ha vagato, cenato, strisciato e dormito, si solleva e celebra il giorno nuovo vomitando sul pavimento. Rivoli multicolore sfilano allegri tra le assi di legno.

Poco più in là, sotto il letto, c’è il quaderno che si è portata nel sogno; al suo interno la speranza di aver dato corpo alla donna e al bambino con parole di questo mondo. Incapace di tornare tra i verticali, lo apre. Con grande attenzione sfoglia pagine piene di onde, valli, riccioli e volute. Insensati scarabocchi si rincorrono per un quaderno intero.

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