George Shaw ha intrapreso una delle strade più difficili per un artista dei nostri giorni: dipingere dei quadri che si muovono nel solco della tradizione paesaggistica prenovecentesca, lasciando nel contempo avvertire la loro attualità. Dipinti con smalti da modellismo, i suoi paesaggi raccontano dell’essere umano senza mostrarlo, attraverso le tracce del suo passaggio e dello scorrere del tempo.

Questi scenari sono la memoria di un luogo e della sua trasformazione, esprimono sensazioni che si stratificano disordinatamente nella psiche. I dipinti del ciclo Scenes from the Passion, realizzati tra il 1996 e il 2002, per esempio, raffigurano dei garage, dei pub o una cabina telefonica ormai demoliti.

Sia che ci portino a immaginare di camminare in una periferia desolata, sia che ci accompagnino attraverso un bosco o un parco, questi paesaggi, testimoniano che qualcuno è passato di lì e ha costruito, disegnato o abbandonato qualcosa. Azioni avvenute in un passato non troppo lontano, che ci riguardano perché legate a un tempo che non ci è estraneo.

Lo scarto abbandonato che l’artista registra sulla tela – materassi, sacchi di plastica, transenne, coni segnaletici, fango, graffiti sui muri, riviste pornografiche ai piedi di un albero – è strettamente legato al senso di continuo cambiamento di quanto ci circonda. Anche la natura agisce e lascia tracce: foglie per terra, strade bagnate di pioggia, cieli infuocati dalla discesa del sole oltre l’orizzonte.

Non c’è niente che possa definirsi “bello” in questi paesaggi urbani o nei parchi violati da rifiuti abbandonati o da graffiti tracciati sulla corteccia degli alberi. Nello stesso tempo non c’è nulla che non appaia significativo per chi coglie il senso di precarietà, instabilità, trasformazione e inesorabile, continua decadenza di queste aree periferiche.

Primo, scattare

Il metodo utilizzato da Shaw per la realizzazione dei suoi dipinti presuppone un rapporto diretto con il luogo raffigurato. «Spesso lavoro partendo da fotografie», spiega, «quindi la fase preparatoria può consistere nello scattare, scegliere o ritagliare una fotografia. Dal momento che usavo una macchina fotografica digitale e adesso uso un iPhone, impiego più tempo a scattare la fotografia sul posto, perché posso vedere subito l’immagine e prendere delle decisioni sul momento. In passato dovevo arrangiarmi con ciò con cui tornavo al mio studio. Guardo le fotografie sul mio computer e stampo quelle che penso possano funzionare.

A volte opto per la fusione di diverse fotografie della stessa cosa. Occasionalmente uso il disegno per mettere tutto insieme. A volte proietto le immagini fotografiche sulla superficie del dipinto, a volte proietto disegni. La maggior parte delle volte ne risulta una commistione di cose sulla superficie della tela. A volte mi chiedono perché non lascio il soggetto com’è nella foto o non uso Photoshop per manipolare l’immagine. Per me le fotografie sono solo materiale grezzo e le percepisco come prive di consistenza. Manca qualcosa. Questo dipende ovviamente dal fatto che sono un pessimo fotografo. Uso la pittura, penso, come un mezzo per insinuarmi nell’immagine e catturare qualcosa. Non mi dispiace pensare a me stesso come a un manipolatore dell’immagine, ma lo faccio meglio con un pennello in mano che con un computer».

Gli chiedo perché alla più tradizionale pittura a olio o acrilica preferisca quella a smalto per modellismo. «Ho voluto deliberatamente allontanarmi dai materiali e dalle tecniche con cui ho visto cimentarsi altri pittori», spiega. «Prima di diventare uno specializzando al Royal College of Art non avevo avuto una vera istruzione da pittore su cui poter fare affidamento. Lavoravo su ogni sorta di immagine derivante dall’arte dei bambini e degli “outsider”, cosa che mi ha indotto a usare la mia stessa infanzia e adolescenza come potenziali temi per la mia arte. La storia di questo tipo di pittura è legata all’uso che se ne fa nel modellismo o in altri hobby e attività manuali da svolgere in casa».

Shaw si riferisce allo smalto Humbrol, una particolare marca di vernice venduta in lattine con il coperchio segnato da una macchia dello stesso colore contenuto al loro interno.

Lo smalto dell’infanzia

Gli manifesto l’idea che l’uso che fa di quel tipo di smalto sembrerebbe nascere dalla necessità di creare un collegamento tra il materiale pittorico e il contenuto dei suoi dipinti, dal momento che rimandano entrambi al mondo della sua infanzia. È la sua infanzia che questo materiale, insolito per chi pratica il suo stesso genere di pittura, mette in gioco? Oppure l’uso di questo smalto ha a che vedere con la necessità innata dell’uomo di esprimersi pittoricamente con qualsiasi materiale abbia a disposizione?

«In un certo periodo del dopoguerra la Humbrol è stata una marca di smalti molto diffusa in Inghilterra. Duchamp parla del ready-made in relazione al pittore moderno che compra tubetti di colore pronti all’uso scegliendo colori altrettanto pronti all’uso e decidendo dove posizionarli sulla tela. Lo smalto della Humbrol, lo dico scherzosamente, era in questo senso un prodotto read-ymade. Io sono attratto da quello che tu descrivi come la “necessità innata dell’uomo di esprimersi pittoricamente con qualsiasi materiale”, che si tratti di pittura, fuliggine o merda. Servendomi di una metafora alchemica direi che si tratta di un processo trasformativo. Ma potrei anche usare la metafora cattolica della transustanziazione... che potrebbe quasi essere arte concettuale. Alla fine è il desiderio di comunicare a essere al centro del lavoro. Ed è il desiderio di comunicare non solo con coloro che sono con noi, ma anche con coloro che non ci sono, e attraverso il tempo».

Shaw ha raccontato di essere sempre stato affascinato dal modellismo, dai soldatini, dai carri armati, dagli aeroplanini sospesi al soffitto e di aver cominciato a dipingere con gli smalti Humbrol semplicemente perché si trovavano nel suo studio. «Usare questo materiale per un pittore ha qualcosa di perverso, perché è complicato», spiega. «Ma a me le complicazioni piacciono. Sono piuttosto convinto che i miei dipinti abbiano l’aspetto che hanno per via del materiale che uso e non per il mio modo di dipingere. O più probabilmente è un insieme delle due cose. Questo materiale mi consente di possedere l’oggetto, suppongo, e di rivendicare questo oggetto come la mia stessa voce nella folla. Chi altro sarebbe così matto da utilizzarlo? Mi piacciono i riferimenti che l’uso di questa pittura fa a un ambito esterno alla storia dell’arte: ai costruttori di modellini, agli appassionati di un hobby, a persone di una certa classe sociale e di un certo periodo. Tradizionalmente lo smalto è stato usato nell’arte vernacolare e popolare, ad esempio per le insegne di pub e negozi, per le chiatte e nei luna park. Vengo dalla classe operaia e nutro un certo orgoglio sia per il mio background che per la mia capacità di includerlo nel mio lavoro. Recentemente, l’ingresso dei miei dipinti in musei e gallerie ha significato per me l’ingresso della rappresentazione del mio background e della possibilità di dialogare con esso all’interno di istituzioni che storicamente non gli hanno dato spazio. Questa potrebbe essere la ragione per cui radico così stabilmente le immagini nella realtà pittorica».

Picasso e Pollock

Lo smalto non è un materiale inedito nella storia dell’arte del XX secolo, gli dico. «Sono consapevole del fatto che un materiale pittorico simile è stato usato nell’arte modernista, da Picasso, per esempio; e in quella astratta, da Pollock, per esempio. È stato ampiamente utilizzato anche nella pop art americana e inglese. In questo senso mi diverte abbastanza il fatto che la mia scelta di pormi in un versante della tradizione pittorica abbia ben inserito i miei dipinti nella tradizione stessa. A pochi artisti che usano la pittura a olio viene chiesto perché lo fanno».

Come nella migliore tradizione modernista, anche nell’arte di Shaw l’uso del materiale pittorico rappresenta dunque un passaggio essenziale per la comprensione del linguaggio. Vale la pena di soffermarsi allora sui motivi che lo hanno spinto a definire allegorici i suoi quadri. Si tratta di allegorie del tempo? «Sono giunto a considerare i dipinti dei luoghi che raffiguro come allegorici perché in verità non sono molto interessato agli edifici, all’architettura, agli alberi, alla spazzatura o ai posti desolati o a qualunque delle altre cose che saltano regolarmente fuori nei miei quadri. Quindi devo chiedermi a cosa sono interessato e qual è il vero soggetto dei dipinti. Ho preso molto raramente alla lettera la storia dell’arte e ritengo che l’opera d’arte ci offra un varco verso l’ignoto e, suppongo, l’inconoscibile. Il dipinto del mandorlo in fiore di Bonnard non è un albero ma un uno sguardo sull’aldilà. Penso spesso che se lavorassi in termini più concettuali o astratti la natura allegorica delle mie ambizioni sarebbe più evidente, ma non sono fatto così. Per esempio, alcuni dei miei lavori preferiti sono stati realizzati da Robert Gober, On Kawara e Félix González-Torres. A volte vorrei poter scrivere, vorrei che la forma della poesia e della narrazione potessero svolgere il mio lavoro in modo molto più diretto. Ma non ho una storia da raccontare. Non si tratta di un’allegoria del tempo ma del passare del tempo, del tempo passato. Ogni immagine segna un punto in una strada in cui ciò che è terreno e senza senso diviene ben presto misterioso».

Gli artisti citati da Shaw hanno una forte impronta concettuale, sono estranei alla tradizione della pittura figurativa. «Quando ero studente», spiega, «ero affascinato, e lo sono ancora, dal lavoro di Robert Gober Slides of a Changing. Alcuni dei miei lavori preferiti sono Today Series di On Kawara, o ancora Perfect Lovers di González-Torres». L’opera di Gober cui si riferisce Shaw è una proiezione della durata di quindici minuti di una selezione di ottantanove diapositive che documentano la continua trasformazione di un dipinto su tavola su cui l’artista ha seguitato a lavorare tra il 1982 e il 1983, trasformandolo ogni volta. Today Series è invece un ciclo di opere, iniziato nel 1966 e conclusosi nel 2013, in cui On Kawara ha dipinto su uno sfondo monocromatico la data del giorno nella lingua e nel formato del paese in cui si trovava al momento. Talvolta riposto in una scatola insieme a ritagli di giornale, il dipinto veniva distrutto se l’artista non riusciva a completarlo in giornata. In Perfect Lovers di González-Torres la perfetta sincronia di due orologi da muro posti uno accanto all’altro riesce a esprimere una sintonia che può essere alterata o spezzata laddove le lancette inizieranno a segnare un orario diverso oppure si fermeranno.

Anche se sul piano del linguaggio le opere di questi artisti sono molto lontane da quelle di Shaw, non sorprende che egli vi abbia fatto riferimento. Affrontano infatti temi come la transitorietà, la sparizione, la mortalità, la trasformazione, la memoria e lo scorrere del tempo, gli stessi temi che risuonano nei quadri di Shaw, che danno al tempo e al luogo una dimensione ambigua: tempo e luogo appartengono alla memoria e dunque sovrappongono momenti diversi di luoghi in trasformazione.

Diffidare della certezza

«L’ambiguità e l’incertezza sono elementi fondamentali nella formazione degli esseri umani», dice. «Io diffido della certezza di chiunque e di qualunque cosa. È disonesta e profondamente ingannevole (sono consapevole dell’ironia dell’essere certo di questo). La mia diffidenza investe la religione e la politica tanto quanto l’arte. Joyce ha descritto il dubbio come qualcosa che tiene unite le persone e ha definito la vita “sospesa nel dubbio come il mondo lo è nel vuoto”. Anche il tempo è ambiguo e ho finito per avere dei dubbi sulla mia capacità di ricordare certi eventi, luoghi e persone, e persino come il tempo sembra passare. In alcuni dei miei dipinti o in alcuni cicli c’è una unificazione dei tempi, un luogo dove tutto accade simultaneamente. È un luogo di oblio. I dipinti cominciano a rappresentare, da soli, una moltitudine di giorni dimenticati. Il vero soggetto diventa la paura».

La figura umana appare molte volte nei disegni realizzati da Shaw dal 1995, ma appare una sola volta nei suoi dipinti. Nei dipinti talvolta si insinua attraverso i disegni dei bambini o dei graffitisti sui muri, ridotta a pochi tratti essenziali. Nello stesso tempo Shaw sostiene di non voler disumanizzare la figurazione, che evoca la presenza umana attraverso la natura e ciò che gli uomini costruiscono o lasciano in giro. «Le figure umane mi sembravano troppo limitanti. Tutto finisce per ruotare attorno a loro, la loro presenza, la loro storia. Penso di essere sempre stato interessato a un’assenza, forse la mia stessa assenza. È certamente la mia assenza dai luoghi della mia infanzia – ho vissuto lontano da quei luoghi per la maggior parte della mia vita – ma anche dall’infanzia stessa, da una sorta di innocenza, come la intende Blake. Certamente, oltre a guardare indietro, il quadro anticipa un tempo in cui non sarò più da nessuna parte. E ci sarà un tempo, ogni giorno più vicino, in cui al mondo non rimarrà nulla all’infuori di ciò che gli uomini avranno lasciato dietro di sé. Dipingo fantasmi».

La pittura di Shaw fa riferimento a un mondo in cui l’uomo potrebbe sparire. «La fine è sempre in vista», dice, «penso che, in un certo senso, sin dai tempi più antichi agli artisti sia stato dato il compito ingrato di mettere i vivi faccia a faccia con la loro fine e la fine di tutto. Per la maggior parte di noi quella fine è la più silenziosa di tutte le uscite di scena e il mondo continua a girare senza volgere indietro lo sguardo neanche per un momento».

Il coltello nella piaga

Altrove Shaw ha parlato di «un’immersione malsana e antiterapeutica nel passato». Perché “malsana” e perché “antiterapeutica” chiedo? «Girare il coltello nella piaga non migliora le cose ma è irresistibile e, talvolta, stranamente piacevole», risponde. «Quando vado dal dottore non voglio che mi prescriva la pittura come cura per i miei problemi. Preferisco i farmaci. E, come la maggior parte delle persone, in verità desidero che mi riveli il segreto per continuare a farmi del male».

Gli chiedo allora se la pittura è una lotta con sé stessi, una lotta solo parzialmente conscia. «Un’opera d’arte è un luogo d’incrocio dove le contraddizioni possono collidere», risponde. «Una di queste collisioni può avvenire tra il conscio e l’inconscio, l’intenzionale e il non intenzionale. Sarebbe sciocco dire che un’opera d’arte non abbracci questi opposti. Scrivendo del processo alchemico nel lavoro di Duchamp, Arturo Schwarz descrive la trasformazione del metallo vile in oro come una metafora del processo psicologico che libera l’uomo dalle contraddizioni fondamentali dell’esistenza. Una delle contraddizioni che hanno accompagnato la mia istruzione cattolica è quella tra il corpo e l’anima. In seguito nella mia vita ho finito per pensare a questa in un certo senso come alla contraddizione tra il fisico e lo spirituale, tra cosa sono e chi sono e cosa diventerò, il visibile e l’invisibile, l’essere ricordato e l’essere dimenticato, l’esserci e il non esserci. Tutti i misteri sono contraddizioni e uno dei grandi misteri è l’opera d’arte. Guardando l’autoritratto di Rembrandt alla National Gallery mi trovo sospeso da qualche parte tra la sua presenza come pigmento sulla tela – qualcosa che potrebbe essere non più che un lenzuolo macchiato pronto per essere lavato – e il risveglio, dentro di me, del senso dalla bellezza dell’invecchiamento e della brevità della vita».

Vorrei sapere se, considerato che è un paesaggista in cui si possono ravvisare riferimenti ai preraffaelliti o a Constable, la sua possa essere definita una pittura inglese. «Non sono convinto che la pittura abbia una nazionalità. E a ogni modo, sono per metà irlandese. Ho letto che una certa pittura inglese del passato si rifà a un proprio background letterario. Questo vale anche per il mio lavoro. Riverso sempre ciò che leggo nei miei dipinti. Faccio altrettanto con la musica, i film e la televisione. I dipinti potrebbero essere visti come un sottoprodotto di tutte queste influenze, molte delle quali sono inglesi, ma non estranee a un orizzonte più ampio».

I nazionalismi

Ti sei definito “antinazionalista”, gli dico. E lui: «Mi sono sempre sentito a disagio in un gruppo. Qualunque fosse, non vi prendevo parte. Immagino ci siano gruppi di cui non puoi fare a meno di far parte, ma non significa che debba piacermi o che debba suonare la loro campana. Il nazionalismo è il suono di quella campana. Ci sono un bel po’ di persone in Gran Bretagna che non sentono il bisogno di uscire dall’Unione europea. Probabilmente alcune di loro allora hanno votato per uscire. Se ricordo bene, nel 2016 il voto consisteva nello scegliere se uscire o rimanere, ma le persone hanno spuntato una casella che abbinava l’uscita ad altri mitici programmi, con scarsa o nulla considerazione per le reali conseguenze. In parte è stato il risultato della propaganda. Sono abbastanza convinto che se ci fosse un altro referendum finiremmo per restare. Gli ingegneri nazionalisti che hanno progettato questo dramma lo hanno fatto per favorire sé stessi e quelli come loro. Non sono nemmeno patrioti ma persone che pervertono il linguaggio del patriottismo e la narrazione della storia nazionale per sviare un pubblico già piuttosto predisposto e, in alcuni casi, oppresso dalla situazione economica. La sovranità di cui parlano è la loro. Dovremmo essere molto diffidenti nei confronti di un uomo palesemente indegno di fiducia, portavoce di uno slogan che fa “Riprendiamoci il controllo”. Un esempio di questa opportunistica creazione di miti è stato recentemente dato da un membro del governo di Johnson, che ha annunciato che l’Inghilterra sarebbe stata il primo paese ad approvare il vaccino contro il coronavirus perché “siamo un paese molto migliore degli altri” nello stesso momento in cui quel vaccino veniva importato attraverso il tunnel della Manica da un altro paese. Ci vuole un senso dell’etica tutto particolare per politicizzare una pandemia a proprio vantaggio».

«Il nazionalismo e il patriottismo hanno mostrato molti volti mentre crescevo, nei tardi anni Settanta e negli anni Ottanta. Le bandiere di alcuni tornei di calcio, del Giubileo d’argento e del Royal Wedding sono diventate vessilli dei razzisti. Sono stato maltrattato perché ero irlandese e perché non lo ero. Ho visto sikh e induisti picchiati in centro. Ho visto ragazzini bianchi che picchiavano ragazzini neri e ragazzini neri che picchiavano ragazzini pachistani. Ho conosciuto ragazzini che portavano la svastica e facevano il saluto nazista in giro per un centro città che sembrava essere stato appena bombardato dalla Luftwaffe. Nei primi anni Ottanta ho visto tutto questo in giro per concerti, dove adolescenti che ballavano potevano essere facilmente infiammati d’odio con poche parole e dei badge gratuiti. Ed erano tanti. Niente di tutto questo aveva senso. Nasceva tutto da piccole bugie che diventavano bugie più grandi, dalla strumentalizzazione dei fatti e dal voltare la testa altrove. E questo succedeva allora ma, come ho già accennato nel corso di questa conversazione, il tempo non va in una sola direzione».

E Boris Johnson? «Non vorrei dover pensare a persone come lui. Purtroppo devo, perché semplicemente non se ne vanno, e guardare dall’altra parte significa incoraggiarli. Il mondo ha una terribile storia fatta di piccoli uomini con buffi tagli di capelli a cui è stato dato il potere. Ci si aspetterebbe che abbiamo imparato la lezione. Per l’amor di Dio!»

 

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