Il primo film hollywoodiano ideato e girato durante la pandemia è ambientato, guarda un po’, in una casa. Non una a caso, però, bensì la Caterpillar House in California, una villa “environmentally-conscious” con pareti di vetro che permettono di integrare l’ambiente circostante (e di riprendere gli interni dall’esterno, in compiaciuti piani sequenza da una stanza all’altra). La coppia che la abita non l’ha comprata, gliel’ha data la produzione, perché Malcolm (John David Washington) è un regista emergente. I due protagonisti (nonché unici personaggi) del film vi fanno ritorno di notte: sono stati alla prima del nuovo film di lui, galvanizzato dal successo con cui è stato accolto.

Appena entra in casa accende la musica, esulta e si scatena, ma non rinuncia alla sua posa strafottente e blasé, deridendo la critica che lo apprezza, sostiene, per i motivi sbagliati: solo perché il suo film parla di una tossicodipendente e lui è un regista afroamericano non significa che il suo sia un film politico. «Mi dicono: sarai il nuovo Spike Lee. Perché non il nuovo William Wyler invece?».

Marie (Zendaya) assiste ai suoi monologhi concitati letteralmente dall’esterno, dove va a fumare sigarette rabbiose accese con un accendigas, dettaglio domestico che stride con il glamour del suo vestito da sera. È offesa perché lui non l’ha citata nei ringraziamenti. Ma il rancore che cova, scopriamo nel corso del litigio che inizia a esplodere mentre lei gli cucina un piatto di mac&cheese, viene da più lontano: la sceneggiatura del film di Malcolm ha praticamente saccheggiato la sua vita, e lui non l’ha scritturata nonostante lei coltivasse ambizioni da attrice.

In arte e in amore

Si apre così Malcolm & Marie di Sam Levinson (figlio d’arte del regista Barry), autore trentaseienne della premiata serie Euphoria, che firma stavolta un dramma da camera che attraverso la coreografia studiatissima del conflitto tra i due personaggi punta a toccare i nervi scoperti del dibattito attuale attorno all’industria culturale. Le minoranze possono avere accesso alla creazione dell’immaginario solo auto-ghettizzandosi nella propria identità? Come dare conto delle oppressioni che si stratificano nell’intersezione di classe, razza e genere? Cosa significa per un’opera d’arte o per un prodotto d’intrattenimento dire qualcosa di universale? È lecito parlare al posto di qualcun altro?

Oggi le domande sulla liceità etica di sfruttare le esperienze di qualcuno per farne un’opera di finzione non riguardano più la coscienza di un dato autore, sono questioni che intrattengono il vasto pubblico, che parteggia per la libertà dell’arte o per il diritto di ciascuno a raccontare la propria storia (meglio se traumatica), e farne un mestiere, un mezzo di sopravvivenza.

Sono tempi di cambiamenti radicali quelli che viviamo costretti nelle nostre quattro mura. Tempi in cui i valori che giustificavano fino all’altro ieri la condotta delle persone e le narrazioni che fruivamo si sono rivelati nella loro misera e incontrovertibile ipocrisia. La crisi economica e ambientale e la pandemia da un lato, e i movimenti come #metoo e Black lives matter dall’altro, hanno fatto cadere due capisaldi: l’arte e l’amore, in nome dei quali era un tempo tutto permesso, anche sfruttamento, collusioni e abusi di potere.

Il mondo nuovo è in ritardo

A prima vista e sulla carta, è Malcolm il personaggio a difendere l’ancien régime, con sconcertante sfacciataggine, a maggior ragione se lo si legge come portavoce di Levinson, regista bianco che condivide con il suo personaggio l’obiettivo dei suoi strali: la critica ottusa asservita al dogma del politically correct. Malcolm rivendica il suo diritto a fare arte, non importa alle spese di chi, e a indugiare nelle sue pose narcisiste in virtù del Genio. Marie, per converso e sempre sulla carta, si pone come voce della coscienza, in quanto autentica vittima del sistema difeso da Malcolm.

La sua unica arma è quella che è stata data in dotazione alle donne dalla storia: il senso di colpa. È così che può ricattare Malcolm emotivamente nel suo monologo finale: con tutto quello che ho fatto per te, e con tutto quello che mi hai fatto tu, potevi almeno ringraziarmi.

A Malcolm non resta che chiedere scusa, mentre la vittima sacrificale si trasforma simbolicamente in Madre: non punta più a fare l’attrice, si vuole immolare. In un certo senso, è sempre il suo masochismo a parlare, non è cambiata da quando era una tossica.

Gli stereotipi sono confermati uno per uno: lei è giovane, lui maturo; lei la musa, lui l’artista; lei perduta, lui l’eroe; lei il corpo, lui la mente. A ben guardare, entrambi personificano i poli rappresentati dai due generi nella storia: lui l’arte, lei l’amore (romantico, sacrificale, sottomesso). Ad accomunarli c’è solo l’etnia. Eppure, in questa stilizzazione, entrambi rappresentano proprio quel passato che sta morendo, mentre il mondo nuovo tarda a comparire, per dirla con Gramsci.

Opposti troppo simili

L’intuizione di mostrare questa agonia attraverso la crisi della coppia la rende ancora più dolorosa: queste due posizioni non si incontreranno mai, perché sono sprovviste proprio del desiderio che potrebbe legarle. Viene in mente la famosa formula di Lacan: «Il n’y a pas de rapport sexuel». E infatti ogni volta che Malcolm e Marie sono lì lì per fare finalmente sesso qualcosa si frappone.

Tutto il film gira attorno a questa copula costantemente rimandata perché mai davvero desiderata: lui è un maschio patetico che la brama solo come conferma del suo potere, come coronamento della sua immagine di artista affermato, che ha tutto; lei la donna che lo respinge e “non si concede” perché non vuole lui, ma il suo rispetto, la sua gratitudine.

Quello che mette in scena Levinson è insomma un quadro desolante nel quale la coppia è il luogo in cui i due opposti vivono un rapporto di codipendenza, sono modellati l’uno sull’altro, funzionali alla costruzione identitaria e trincerata di entrambi.

Gli opposti si attraggono, si dice, ma forse il punto è che in questo caso non sono nemmeno tanto opposti, bensì troppo simili. Entrambi hanno lo stesso identico fine, senza che sia chiaro cosa davvero desiderano: puntano ad affermarsi, ciascuno tramite i mezzi di cui dispone. Lui non vuole la pietà dei critici, lei esige quella di Malcolm. Condannati a incarnare due posizioni archetipiche e asettiche: le “intimità fredde” a cui dedicava un suo saggio sulle “emozioni nella società dei consumi” la sociologa Eva Illouz.

In questo senso questo film, che pure la pandemia non la cita mai, la tematizza esplicitamente, e non solo in virtù delle limitazioni produttive che cercano di fare di necessità virtù: il dibattito tutto cerebrale tra Malcolm e Marie sembra quello che viviamo ormai solo sui social, caratterizzato da prevedibilità costante e motivato dalla costruzione meticolosa sebbene inconscia della nostra immagine, del nostro personale brand, schierandoci da un lato o dall’altro di una diatriba tutta teorica e astratta.

Il confronto

Rispetto a tanti paragoni scomodati per parlare del film, il Kammerspiel di Levinson è meno tagliente e doloroso, vorrebbe somigliare a un incontro di boxe ma sembra più un fashion film, una pubblicità di prodotti di lusso. È questo a renderlo ancora più claustrofobico. In Carnage di Polanski, ne Il servo di Losey, in Chi ha paura di Virginia Woolf di Mike Nichols (ma persino in Lockdown all’italiana) il conflitto è sempre scatenato dal confronto con il “fuori” della coppia, grazie al rispecchiamento, la proiezione e il confronto con altre coppie, esprimendosi in una dimensione già sociale. Qui bastano due individui teoricamente “legati” a mostrare una frattura che è sempre più intima, costitutiva. Lo sguardo della società è fuori campo ma completamente introiettato, rappresentato dalla prima recensione che arriva al film di Malcolm nel mezzo del litigio tra i due.

Un’apparente rivoluzione

Così, tutto il film si risolve in un’allegoria, per forza di cose politica, motivata da un messaggio più che da esigenze espressive. Tutti i film sono politici, lo dice Marie: punto per lei. Ma tutti i film che sono esclusivamente politici non dicono nulla, fanno il giro e diventano semplicemente merce, come dice Malcolm: punto per lui. In questa borghesissima partita di tennis, assegnargli il match point equivale a scrivere la recensione più lapidaria sul suo stesso film (a proposito di auto-confinamento!).

L’unica novità risiede nel fatto di utilizzare due attori neri per imbastire una discussione che, nonostante le alte ambizioni filosofiche, ricorda i litigi delle coppie delle vignette più viete della Settimana enigmistica, immersa in un setting estetizzante che, nonostante il suo bianco e nero smaccatamente cinefilo e autoriale e la grana grossa della pellicola 35 mm, del cinema hollywoodiano classico non riesce a riprodurre il melodramma e l’intensità emotiva. C’è chi (come il Guardian) ha accusato Levinson di avervi ricorso per farsi scudo delle sue opinioni poco progressiste. E se invece Levinson (ma anche Washington e Zendaya, che hanno prodotto il film) avessero voluto sollevare il dubbio che questa apparente rivoluzione, questo mondo nuovo, sia solo una parodia scialba e oziosa di quello vecchio?

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