I pozzi della comunicazione sono ormai avvelenati, parlare di Ucraina se non si hanno informazioni inedite o competenze precise è diventato un esercizio retorico o forse perfino esibizionistico; ogni “però” e ogni “siccome” rischia di essere considerato, da una parte e dall’altra, collusione col nemico. C’è una cosa sola che appare in evidenza non ideologica, e non strettamente legata a questa guerra ma piuttosto alle vicende degli ultimi vent’anni con progressiva accelerazione: la morte si è rifatta viva, non è più rimossa e nascosta come lo era stata per tutta la fine del secolo scorso.

Ci siamo creduti immortali, qualche avveniristico centro di ricerca addirittura lo teorizzava; in ogni caso se ne parlava pochissimo, si usavano eufemismi per nominarla e i morenti venivano pudicamente allontanati dal racconto delle sorti progressive meravigliosamente in luce. Post human, vite virtuali, ma soprattutto l’idea che niente valesse quanto una vita umana, che una vita sola pesasse quanto l’intero universo. Umanesimo tecnologico, consumistico ed egoista molto più che sociale o religioso.

Si racconta che nel 1919 un umile mugik della sperduta campagna sovietica abbia dettato allo scrivano del proprio paesello una lettera per il compagno Lenin: ora che c’è stata la Rivoluzione, diceva la lettera, potrebbe il compagno Vladimir Ilič Uljanov dirci «per che cosa bisogna vivere e per che cosa morire?». La domanda è tornata di attualità: il vecchio «morire per Danzica?» coniato più di ottant’anni fa da un anticomunista francese è stato riciclato in un improbabile «morire per Kiev?».

Ma già lo stupore ci aveva colto, all’inizio di questo secolo, di fronte ai giovani terroristi islamici che non esitavano a offrire la vita pur di compiere azioni gradite ad Allah, e di fronte all’orgoglio di molte madri per aver avuto figli caduti in nome di Dio. Li abbiamo liquidati pensando all’arretratezza culturale, al fanatismo, alla propaganda, all’indottrinamento e alle minacce dei tagliagole. La parola “martiri” l’abbiamo trattata come una bestemmia.

La pandemia

Quando l’onda si stava spegnendo in una risacca che era costata molte morti e molto denaro (morti islamiche, denaro occidentale), e ci stavamo convincendo che quei giovani si sarebbero lasciati addomesticare dalla sproporzione di forze e dal consumismo sessualizzato, una forte crisi economica ci aveva di nuovo distolti dalla morte per pensare al portafoglio. Alcune guerre successive fortunatamente avvenivano in teatri lontani da noi, ne vedevamo soltanto la lunga scia di profughi mentre rifiutavamo di vederne le conseguenze geopolitiche a lunga scadenza.

La morte si è ripresentata due anni fa, con sublime maleducazione, sotto la maschera di una pandemia dalle origini ancora incerte ma dalle cause identificabili in responsabilità nostre di conduzione del pianeta. Processione di carri funebri in Lombardia, agghiaccianti cimiteri improvvisati in India, in Brasile e perfino negli Stati Uniti; di morti si parlava tutte le sere al telegiornale, ed era una novità assoluta.

Che si potesse dare la vita per fedeltà alla propria missione si cominciò a vedere in alcuni medici e infermieri, subito battezzati “eroi”. In Africa la povera gente è talmente abituata a morire che la pandemia pareva non mordesse. Passato il primo panico, accollata la maggior parte delle morti “ai fragili e agli anziani”, i più audaci e robusti si posero il problema del rischio: per quali azioni vitali valeva la pena di sfidare la malattia, se non proprio la morte? Protestare in piazza, andare a votare, viaggiare per lavoro, ritrovare gli amici o i vecchi genitori, sfogarsi in amori clandestini? Ci fu un deciso calo delle nascite, in una specie di lockdown demografico. Meno figli si fanno, più si dà valore alla vita singola e meno si ha voglia di metterla in gioco.

Dare figli alla Patria

“Dare figli alla Patria”, vecchia locuzione che sa di stantio e odora di fascismo, ma era già risorgimentale. Da tre mesi ci sono madri (non così lontane come quelle siriane o curde o palestinesi) che sostanzialmente lo pensano, anche se noi preferiamo dire che lo fanno “per difendere l’integrità territoriale”. E siamo costretti a chiederci se anche noi (e i nostri figli) saremmo pronti a pagare con la vita nel caso che un invasore ci togliesse l’Alto Adige o la Venezia Giulia.

Stiamo sotto l’ombrello della Nato, come si dice, il che ci fa sentire sicuri ma anche ci obbliga a mantenere gli impegni per difendere l’integrità territoriale degli altri paesi membri (e non è che l’Italia abbia grandi tradizioni storiche di lealtà ai trattati). Che succederebbe, se davvero la Russia attaccasse la Lituania o la Polonia, e la Nato chiamasse a combattere i nostri giovani? Certo non ci sarebbero folle oceaniche ad applaudire la nostra entrata in guerra, né il papa argentino sarebbe così sollecito a benedire le truppe.

Gli Stati Uniti possono forse vincere guerre a partire da qualunque paese, purché la popolazione locale dimostri fierezza e compattezza nel resistere in condizioni di inferiorità all’aggressore, in attesa che le armi efficaci possano giungere, e intanto si attrezzi a vivere sotto i bombardamenti.

Noi, qui e ora, ci difendiamo psicologicamente dall’ipotesi sperando che l’Ucraina come una spugna possa assorbire tutto il male, che il conflitto non si espanda e che il solo sacrificio a cui saremo chiamati sia un periodo di crisi economica (ma nemmeno poi tanto).

Ci gingilliamo in dibattiti insensati come quello sulle armi offensive o difensive, o fatui come il chiederci se un nazifascista possa comportarsi da eroe; ci interroghiamo se Zelensky sia simpatico o antipatico, se Putin possa essere definito criminale, ci impegniamo a distinguere sottilmente tra propaganda e disinformazione. La vera cosa che ci fa paura non è tanto la guerra (il fantasma del nucleare pare comunque esorcizzato dall’enormità stessa del danno, e dalla convinzione che la deterrenza funzioni ancora) quanto il mutamento geopolitico che pare irreversibile.

Che farà la Cina? L’Europa avrà un proprio esercito? La Germania riarmata darà problemi? Tutto questo ci coinvolgerà davvero, la pietà che proviamo ora guardando le scene ucraine in televisione è una copertura. Le immagini di orrori e miseria e infelicità suscitano più compassione che solidarietà attiva, ed è solidarietà troppo pigra quella che fa vincere agli ucraini le gare di canto.

Morire per la democrazia

Ma invece la domanda di fondo resta, la morte ormai tornata sul proscenio non si lascia ributtare indietro tanto facilmente. La domanda classica dovremo pur riformularla in “morire per la democrazia e per la libertà di espressione?” Per questa democrazia di oggi, consumista e finanziaria e produttrice di irrealtà? Quella contro cui tante cose abbiamo scritto e argomentato? Probabilmente sì, la tecnologia che ci esautora dall’umano è anche quella che fa vincere le guerre; e tutti gli altri regimi autocratici e totalitari sono pur sempre peggiori.

Se è così, chi diffonderà questa convinzione facendola diventare carne e sangue e slancio popolare? I giovani di solito sono i più disposti a morire per un ideale, ma è l’occidente che è vecchio.

Chi farà in modo che all’occorrenza la guerra venga accolta dai singoli individui come un male inevitabile e non come l’imposizione di uno stato confuso e coercitivo? I nostri figli e nipoti, cresciuti in famiglie a maglie larghe, spesso con una fede anch’essa lasca e vacillante se non spazzata via da un laicismo indolente, abituati a considerarsi cittadini del mondo e di Internet, saprebbero morire per difendere la nostra civiltà? La pace è meglio della guerra, ma Lapalisse non ci difenderà. Forse solo l’aspra necessità ci sarà maestra, e il dolore non per vittime lontane ma per le persone che amiamo. O per i paesaggi di cui siamo impastati.

Tra le scene ucraine di pena e tragedia, quella che mi ha colpito di più è stata una sfilata di carri armati tra i mandorli in fiore; la natura fa il suo corso, e dall’averla troppo a lungo violentata verrà forse la prossima performance della morte.

© Riproduzione riservata