A Ukrainian serviceman walks amid destroyed Russian tanks in Bucha, on the outskirts of Kyiv, Ukraine, Wednesday, April 6, 2022. (AP Photo/Felipe Dana)

Fa uno strano effetto leggere Stalingrado di Vasilij Grossman questi giorni. Se per distrarti accendi la televisione ti sembra di vedere un film al contrario. Gli stessi luoghi. Il bombardamento e la distruzione di Kiev, le stragi di innocenti, il Donbass, Odessa. Le stesse fughe di massa dalle città, la stessa disperazione. Ma allora erano i nazisti ad attaccare. Con una potenza di fuoco impressionante.

Hitler non ha invaso la Russia con leggerezza, ma con una macchina militare spaventosa. Era certo di concludere la sua campagna di Russia entro il novembre del 1941. Il generale Paulus sembrava invincibile. L’eroica e all’inizio un po’ improvvisata resistenza russa lascia senza parole. Si riconvertono le fabbriche, lavorano tutti giorno e notte. A Stalingrado si producono centinaia di cannoni e carri armati, nelle leggendarie fabbriche che con i loro nomi ci raccontano una delle battaglie più famose della storia: Le barricate, La fabbrica trattori, Ottobre rosso. Le vediamo allineate lungo il Volga, le cui rive, destra e sinistra, diventeranno confini infuocati e valicabili a costo della vita. Operai, fonditori, un popolo intero reagisce spingendosi oltre ogni limite umano.

Fonditore eccellente è Andreev, uno dei tanti splendidi personaggi di questo romanzo polifonico, che diventerà ufficiale artigliere: è l’emblema dell’aristocrazia operaia, l’anima dei soviet teorizzati da Trotzky e Lenin. Tutti con una loro forte personalità, tutti con una storia, ingegneri, medici, ex contadini, reagiscono in modo sorprendente: non solo con atti di eroismo militare ma soprattutto costruendo cannoni, facendo andare avanti notte e giorno le fonderie richiamando anche i pensionati.

Stalingrado è stato pubblicato subito perché tutti i personaggi sono animati dalla stessa passione politica. Anche Grossman era un giovane comunista, e straordinario corrispondente di guerra. Essere ebreo era per lui soltanto una tradizione familiare: era e si sentiva russo. La potenza dei grandi romanzi sta però nella capacità di raccontare i cambiamenti. Che diventeranno sconvolgenti nel secondo, e ben più tormentato, volume, cioè in Vita e destino.

Dilogia

Dilogia: cosa significa questa parola? Pensiamo alle stelle binarie, al sistema binario. Sono un unico ma sono anche un doppio. Come girare con due cineprese la stessa scena. Se spari da lontano e vedi cadere una figurina in divisa sei contento perché hai fatto centro, se vedi la stessa scena dall’altra parte, se con quello che cade hai mangiato dormito bestemmiato per settimane vedi un altro film anche se è lo stesso. Questo per inquadrare l’enorme problema estetico posto da Stalingrado, che ora possiamo lasciar decantare accanto allo sconvolgente Vita e destino.

Schematicamente si potrebbe dire: Stalingrado (che fu pubblicato, ma con pesanti censure che questa edizione in qualche modo riesce a compensare e a ricostruire) finisce dove Vita e destino comincia. I personaggi sono gli stessi, ma la Storia li trasforma. I tempi della guerra si dilatano. Due anni diventano eternità. Le famiglie, le coppie, tutti i personaggi che abbiamo imparato ad amare saranno travolti e trasformati dalla guerra.

Il tema che emerge e che resta in mente dopo la lettura sembrerebbe laterale: come distinguere un popolo da chi lo dirige? Ha una sua autonomia questa categoria che chiamiamo indistintamente popolo? Perché i tedeschi sono diventati dei mostri razzisti che desiderano distruggere razze e paesi?

Se lo chiedono davvero, Štrum e il suo vecchio maestro, in uno dei dialoghi più intriganti del primo volume: un popolo di poeti, musicisti, scrittori, filosofi… Questi due libri, che dovremo imparare a leggere come unico libro, raccontano esattamente questo.

Siamo nel cuore della Storia del Ventesimo secolo. Si sta preparando la battaglia decisiva. Ci sono già stati assalti e assedi, su Mosca e Leningrado. I grandi massacri in Ucraina, la prima Shoah. Non c’è grande traccia di alcuni gravi precedenti, nel libro: il disastro della collettivizzazione forzata, le feroci epurazioni degli anni Trenta, che tra l’altro avevano depotenziato la stessa armata rossa, privandola di centinaia di ufficiali che avevano vissuto gli anni della rivoluzione d’ottobre. I gravi errori di Stalin, che non crede all’invasione tedesca neanche quando inizia e ritarda colpevolmente la difesa del paese.

Nel primo libro le persone sembrano non saperne nulla. Le carte saranno tutte scoperte in Vita e destino. Viktor Pavlovic Štrum, fisico nucleare, è marxista, lo sono anche i suoi maestri. Lo era anche Grossman, corrispondente di guerra e militare a tutti gli effetti per tre lunghi anni. Con la sua divisa dell’armata rossa attraverserà l’Europa fino all’esito finale, fino a Berlino, e il suo cambiamento profondo, lacerante, è lo stesso che agisce in tutta questa imponente opera epico lirica.

Non è stato Stalin a vincere la guerra, ma un popolo che non può accettare di essere annientato. Grossman è uno di loro. Appaiono grandi personaggi storici, grandi generali, ma anche e soprattutto tante persone comuni, spesso senza nome, e diventano il tessuto vivente dell’opera. «Sono le persone semplici a compiere grandi imprese».

Visione interiore

Se il cuore epico del romanzo è collettivo, contadini, funzionari, generali, soldati, carristi, artiglieri, cecchini, uniti nel loro essere russi e socialisti, il cuore vero è invece sentimentale. E riguarda la morte e il martirio della madre, trasposta nella vicenda di Štrum, il fisico nucleare alter ego di Grossmann.

Le ossa di Berdicev, dei coniugi Garrard, racconta con grande evidenza di prove, la strage degli ebrei, che è già Shoah. Le comunità ebraiche vengono cancellate. Vengono uccisi i loro bambini. Una Shoah meno scientifica rispetto ai campi di sterminio, certo non meno brutale. Decine di migliaia di vittime. Uccisi in fondo alle buche scavate da loro stessi.

Questa è la visione interiore, straziante, il tormento di Grossman: dopo la fucilazione di massa si copriva l’enorme buca di terra, e lì restavano in paziente attesa i collaborazionisti ucraini. Perché qualcuno si salvava sempre dalla fucilazione collettiva, lo sapevano tutti. Diverse mani emergevano dalla terra, bocche piene di terra cercavano l’ossigeno. I sopravvissuti venivano finiti a colpi di fucile e spinti di nuovo sotto terra. Così, molto probabilmente, è morta la madre di Grossman.

La lettera d’addio che scrive al figlio, che apparirà in Vita e destino, attraversa anche il primo volume, passa per settimane di mano in mano per centinaia di chilometri fino a raggiungere Štrum. In queste pagine il cuore del romanzo e il cuore di Grossman sono la stessa cosa, e la sua scrittura, più vicina a Cechov che a Tolstoj, raggiunge i suoi vertici.

È la grande questione ebraica che segna la rottura di Štrum-Grossman con Stalin e con tutto il partito. Iniziano le censure più gravi. I suoi articoli parlano di queste stragi di ebrei, ma il partito li censura in blocco, «perché sono tutti russi». Sembra un segno di apertura, un “siamo tutti compagni” ma non è così. È antisemitismo puro, profondo e ben radicato del resto anche in tutta la sinistra occidentale.

In un certo senso Grossman-Štrum dell’inizio, soldato e corrispondente di guerra (certamente il più grande di tutti i tempi) racconta la sua lenta, tragica trasformazione. Da socialista rivoluzionario si scopre e si sente ebreo. Diventerà la battaglia della sua vita. Persa, apparentemente, come tutte le battaglie dei poeti (pensiamo alla crocifissione di Mandel’stam), ma vinta nel tempo. Questa è la grande forza della poesia e della letteratura.

Vicende editoriali

La storia editoriale del libro è emblematica. È l’ultimo libro di un dissidente russo che riesce a raggiungere l’occidente. Sopravvissuto per miracolo: l’ultima copia dattiloscritta è rimasta nascosta in una cucina di Mosca per decenni. Anche i nastri della macchina da scrivere gli avevano sequestrato. Una violenza inaudita, un ostracismo durato anche nell’epoca Krusciov e in quella di Gorbaciov. Glielo avevano detto: «Il tuo libro potrà essere pubblicato, forse, tra duecento anni».

La fatale profezia del regime sovietico si è quasi avverata in Italia. A quella condanna del regime sovietico i comunisti italiani si sono perfettamente allineati. Il libro infatti sarà tradotto per la prima volta da un editore cattolico, Jaca Book, nel 1983. Ma sarà letto molto più tardi, quando lo riproporrà Adelphi, nella traduzione (notevole) di Claudia Zonghetti, che ora traduce per lo stesso editore anche Stalingrado.

Vita e destino è il libro più odiato dal comunismo stalinista, e temo che tuttora venga respinto da chi proviene da quella tradizione. Spero che qualcuno ricordi il processo intentato dal Pci a Giangiacomo Feltrinelli per aver pubblicato Il dottor Zivago. Un processo di pura marca staliniana, degno della Lubjanka. Tra i disperati dei Gulag in Vita e destino ci saranno anche i giovani rivoluzionari italiani condannati a morte con la complicità di Togliatti.

La fine delle illusioni

Non ha senso leggere Stalingrado senza leggere a seguire Vita e destino: sarebbe come leggere soltanto metà di Guerra e pace. In questo unico grande libro avviene un fenomeno straordinario: l’ideologia si dissolve. Le parole dette con tanta convinzione due anni prima non hanno più senso. Tra amori rubati sotto i bombardamenti tedeschi (e italiani), descrizioni avvolgenti della natura immensa (la steppa) che assiste attonita alla strazio della distruzione, Grossman attraversa diversi gironi infernali ai quali non seguirà nessun Paradiso. Soldati che corrono tenendosi le budella con le mani e poi cadono stremati e tremanti.

Leggendoli insieme come sono stati pensati capiremo davvero la complessità di tutti i suoi personaggi. Impossibile non segnalare l’intensità e la bellezza delle tante donne che appaiono nella storia: la matriarca Aleksandra Šapošnikova, l’affascinante ma instabile Ljudmila, sua figlia, e poi Maurusja, Vera, Zina. Non sono casalinghe: sono dottoresse, infermiere. Le donne lavorano anche in fonderia, dovunque, sono soldatesse, fanno battute scurrili quando sudano insieme nella banja.

Un altro personaggio straordinario è Krimov, commissario politico presente ovunque con i suoi uomini, sempre in prima linea, uno che cammina a schiena dritta mentre esplodono bombe devastanti. Un personaggio che è in fondo un altro frammento di Grossman. Dolente, solo, riflessivo, è il Grossman vagante nella guerra. Entra in tutti i comandi operativi, che mutano anch’essi di continuo, con l’avanzare impetuoso di Paulus.

Krimov è un uomo integro, un militante vero, ma anche lui dovrà confrontarsi con la realtà: in Vita e destino lo troveremo alla Lubjanka, dove militanti integerrimi sono costretti a confessare: «Sì ho sempre desiderato uccidere il compagno Stalin, e più volte ho attentato alla sua vita». Sfuggiti alla morte in battaglia devono affrontarla in una dimensione che sembra abbandonare ogni realismo, sfiorando l’insensata astrattezza di Beckett.

I Soviet, l’aristocrazia operaia, la dittatura del proletariato, diventano parole vuote, pura retorica. I sogni si trasformano in incubo, in feroce dittatura, ma forse si erano già spenti a Kronštadt. In piena rivoluzione d’ottobre gli anarchici portarono uno striscione nero ai funerali di Kropotkin: «Dove c’è autorità non c’è libertà». I gulag sono la morte, il funerale delle illusioni, del leninismo, del socialismo scientifico, di un intero castello filosofico-politico. Il romanzo sembra sprofondare nell’annichilimento assoluto.

In Vita e destino le prigionie si intrecciano. Entreremo in lager tedeschi, conosceremo da vicino prigionieri russi, oppositori politici tedeschi, gente di diversi paesi. C’è anche un prete italiano. Un colonnello americano. Un tolstoiano. Un menscevico orbo fuggito a Parigi e acchiappato dai nazisti, quindi evitato come la peste dai bolscevichi! Il passato di ognuno continua apparentemente a vivere ma in realtà sono tutti lì per soffrire e morire. Interiormente vacillano tutte le convinzioni. Chi credeva in Dio non crede più, chi si diceva marxista non si sente a suo agio con i suoi compagni e impara ad ascoltare le idee degli altri.

Dal lager ai gulag

Lo stile generale dell’opera non muta, almeno apparentemente. Non si attenua, per esempio, il ruolo dei personaggi minori, cioè quelli che dovrebbero essere ombre, o nomi soltanto. Appaiono quasi in ogni pagina, e ognuno lascia una traccia, un ricordo durevole. Sono decine, forse centinaia. Una folla di individui. Una vecchia appare alla finestra della sua isba affumicata: qualcuno ricorda i racconti delle donne del villaggio su questa povera signora. È una vedova, impazzita, taciturna, attirata da un lago attorno al quale vagava per giorni. Ecco: è solo un frammento, ma c’è dentro una vita. Un semplice sguardo, una voce raccolta per strada.

Il lager nazista sembra produrre specularmente i gulag, che non sono altro che lager sovietici. E qui ritroveremo personaggi ben noti sin dal primo volume. Tra loro Abarčuk, padre naturale di Tolja, avuto con Ljudmila (la moglie di Štrum). Degli altri prigionieri pensa che è giusto siano dentro: lui ci è finito per errore. La sua fede nel partito è incrollabile.

Abarčuk, ancora convinto comunista, si ricorda del figlio che ha abbandonato. Gli dice con il pensiero che è l’unica cosa che gli è rimasta al mondo. Non sa che è morto combattendo. Al figlio non ha dato neanche il cognome, per “indegnità ideologica” della madre. Un pazzo, un uomo orribile e straziante, un magnifico personaggio.

Che a un certo punto ha un dubbio, ed è un pensiero che racconta il libro intero: «Abarčuk si avvicinò al pancaccio di Monidze, che stava rattoppando un calzino, e disse: Sai cosa ho pensato? Non invidio più chi sta fuori. Invidio chi sta nei lager tedeschi. Che bellezza! Sapere che a picchiarti è un nazista. A noi, invece, è toccata una sorte tremenda. Siamo prigionieri dei nostri stessi compagni…».

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