L’amarcord di Paolo Sorrentino fa ridere, tanto. Non è una bestemmia, non è lesa maestà, non è insulto per il raro coraggio di fare cinema – e arte – sulla pagina più tremenda e più irraccontabile della propria storia personale, sulla straordinaria normalità di un padre e una madre perduti in una notte come tante, per la follia del caso. È la grande bellezza di scoprire che il più recente dei nostri uomini Oscar è capace di fare i conti con il dolore e di riscattarlo con una memoria di ironia, di colori, di sapori, di scherzi contagiosi che nel suo cinema finora non conoscevamo.

È stata la mano di Dio, che esce in sala il 24 novembre e dal 15 dicembre sarà in piattaforma su Netflix, è il vero esame di maturità di Paolo Sorrentino.

Il titolo scelto dall’Italia per le candidature agli Oscar 2022, è in corsa per gli Efa, i premi europei, come miglior film, regia e sceneggiatura, e so bene che il Gran premio della giuria a Venezia, che non è il Leone d’oro, da molti è stato vissuto con grande amarezza.

Non appartengo alla schiera di chi si è vestito a lutto, tutt’altro. Ho sempre il sospetto che qualcuno viva i festival come una partita dei mondiali, tifando per gli azzurri dagli spalti. C’è però un gigante di nome Toni Servillo che non ha mai vinto la Coppa Volpi, e che quest’anno, più ancora di sempre, era da Pallone d’oro. Chi se lo è perso – peccato – in Qui rido io, di Martone, o in Ariaferma, di Di Costanzo, con Sorrentino ha una prova d’appello.

Dono di sopravvivenza

C’era una volta quel gol leggendario di Maradona ai mondiali del Messico 1986, perché è risaputo che la divina provvidenza procede per vie imperscrutabili. E c’era una volta un ragazzo di sedici anni che solo per amore del calcio non condivise la sorte dei genitori, uccisi dall’ossido di carbonio nella loro casetta in montagna, piccolo lusso borghese sudato.

È una frase, «è stata la mano di Dio», che per Sorrentino diventa altro, non miracolo sportivo ma dono di sopravvivenza, in bocca allo zio del regista, nel film Renato Carpentieri. È vita rivisitata. È una materia autobiografica così urgente, così impervia, che sembra un azzardo spericolato provare a far traboccare di vita il viaggio a ritroso nel trauma. Ma è una sfida vinta.

Quella di Sorrentino è la Napoli degli anni Ottanta vista con gli occhi di Fabietto (Filippo Scotti), alter ego di Paolo ragazzo. La Napoli che vive la fiaba del Pibe de Oro e la domenica si ammucchia in pranzi, chiacchiere e burle che non finiscono mai.

Si è detto e scritto molto su questa simbolica chiusura del cerchio di Sorrentino, sul suo ritorno nella città che non aveva più raccontato da vent’anni, da L’uomo in più del suo esordio. Ma sono tante le chiusure del cerchio che si consumano insieme. C’è la voglia quasi liberatoria di guardare al nostro cinema bello del secolo scorso, sfrontato, irruento, carnale. C’è come una nuova libertà in cui si muove Toni Servillo, dopo i cinque film capitali già realizzati insieme: libertà paradossale, visto che da fratello e compagno di lavoro è promosso al ruolo assoluto di padre.

Anche la scrittura (Sorrentino firma anche come sceneggiatore) è diversa, ha la semplicità calda dei ricordi che ti fanno compagnia, perfino quando imbocca strade surreali. C’è una coppia irresistibile che fa da architrave: la chimica di Servillo e Teresa Saponangelo è di quelle da stato di grazia. Ma intorno a loro c’è una famiglia di attori che subito diventa famiglia tua. A monte, il cerchio si è chiuso con la genesi stessa del film. È l’idea forte di ricordare per dimenticare: trasfigurare una tragedia vissuta, stemperare il dolore con la medicina dell’arte.

Serialità d’autore

È chiaro che tocchi con mano l’abissale distanza di una megaproduzione da colosso planetario – che è poi l’orizzonte in cui si muove ormai Sorrentino – dalle ordinarie economie dei set di casa nostra.

Lui è stato tra i primi ad attraversare senza remore il Rubicone e a scommettere sulla serialità d’autore. Sembra ieri che a tanti suonava eresia. Per La mano di Dio è riuscito a strappare a Netflix un trattamento speciale. Il film avrà l’agio di fare il suo corso su grande schermo, prima di essere sequestrato dal consumo esclusivo in streaming.

Tra realtà e immaginario

Grandissimo film, almeno fino a metà: quando per forza di narrazione si spegne il faro di Servillo-Saponangelo, qualche palpito di felice emozione si perde per strada.

Restano i sogni di un ragazzo che diventerà grande, non solo d’età. E restano Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Lino Musella, Ciro Capano, Betty Pedrazzi, tutta una folla di figurine carnali e oniriche, come la seducente “zia pazza” che si fa rimorchiare da San Gennaro, vede incarnarsi il “monaciello” della mitologia partenopea e abbaglia i ragazzi spogliandosi nuda. Come la Baronessa, che non appartiene alla biografia del regista ma è una creatura di fantasia, protettiva e concreta però, come tutte le donne del film, vere traghettatrici di futuro.

Il senso ultimo, a volerlo cercare, è che il cinema ha il compito di distrarti dalla realtà, perché la realtà è scadente. Le visioni appartengono alla realtà, ma sono già cinema in nuce. Sono visioni oniriche, come un set di Antonio Capuano – raro caso di un vero regista vivente reinventato per la finzione – che diventerà il primo mentore dell’aspirante regista. Sono visioni pittoresche, come la sala d’aspetto delle comparse col miraggio di un film con Fellini. Sono istantanee comiche ma folgoranti che solo la vita vera può suggerire, come papà Servillo che la tv l’accende dal divano, con un lungo bastone, per non cedere, da comunista, al consumismo del telecomando.

«La vera differenza tra questo film e gli altri che ho fatto sta nel rapporto tra realtà e bugie», dice Sorrentino. «Se gli altri miei film si alimentano di falsità nella speranza di individuare un barlume di verità, questo parte da sentimenti reali che sono poi stati adattati in forma cinematografica».

Tra realtà e immaginario il confine è precario. Nessuno ce lo ha insegnato meglio di Fellini. Le tentazioni “felliniane” di Sorrentino alimentano da sempre il tormentone dei suoi detrattori. Ma è imitazione, la sua, o è il suo personale sguardo sul mondo che viaggia davvero sugli stessi binari? Anche i perplessi per vocazione dovrebbero concedersi, se non altro, il beneficio del dubbio.

«‘A tieni ‘na cosa da raccuntà?», chiede Antonio Capuano (Ciro Capano nel film) a Fabietto (Filippo Scotti), che vuol partire per Roma. La differenza tra il buon cinema e quello cattivo in fondo sta tutta qui: avere qualcosa da raccontare. I nostalgici sono una tribù che mette malinconia. Ma c’è una domanda che ognuno di noi può porsi in proprio: da quanto tempo non inciampiamo in un film davvero “necessario”, di qualunque latitudine e bandiera? È come se di questa banalissima essenza, così basilare – avere qualcosa da raccontare – si stesse silenziosamente sbiadendo il ricordo.

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