Kip Thorne è uno scienziato fuori del comune, che ha vinto nel 2017 il premio Nobel per la fisica per la scoperta delle onde gravitazionali, e nel 2014 ha infuso la propria scienza nel film Interstellar di Nolan. Le sue due anime, scientifica e artistica, sono confluite nello straordinario libro Viaggiare nello spazio-tempo (Bompiani, 2018), che riesce nel duplice compito di illustrare la scienza con le immagini del film, e spiegare il film con le idee della scienza.

Ci sono almeno due precedenti, a questo connubio tra ricerca scientifica e cinema: i film 2001 Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick e Contact (1997) di Robert Zemeckis, che si basavano sugli omonimi libri del fisico-matematico Arthur Clarke e del planetologo Carl Sagan. E i due precedenti non sono citati a caso, visto che Nolan ha sottolineato il parallelo tra il proprio film e quello di Kubrick, mentre Thorne ha dato il proprio contributo al romanzo di Sagan.

Dopo aver letto nel 1985 il manoscritto di Contact, infatti, Thorne suggerì a Sagan di non far passare la propria protagonista in un buco nero, come scorciatoia per arrivare alla stella Vega, perché secondo la scienza dell’epoca non avrebbe potuto sopravvivere. Gli propose invece di farla transitare in uno dei cunicoli spazio-temporali scoperti nel 1916 da Ludwig Flamm, riscoperti nel 1935 da Albert Einstein e Nathan Rosen, e oggi noti come wormholes, in riferimento alle piccole gallerie che i vermi, i bruchi e le tarme scavano nella frutta o nel legno.

Da allora queste scorciatoie sono diventate usuali nella fantascienza, e compaiono anche in Interstellar. Ma, a scanso di equivoci, bisogna notare che finora non si sono mai osservati dei wormholes nell’universo macroscopico, né oggetti che potrebbero diventarlo in futuro. John Wheeler, maestro di Thorne, ha però proposto negli anni ’50 l’idea che essi possano esistere a livello microscopico e contribuire alla formazione di una schiuma quantistica in cui si sbriciola la materia ordinaria, analoga alla schiuma prodotta dalle onde che si infrangono sulle rocce o a riva.

I wormholes sono come buchi nel tessuto dello spazio-tempo, simili alle asole dei bottoni in un vestito: infilandoci un dito dentro si passa velocemente da un punto esterno della stoffa al punto interno opposto, o viceversa, mentre far scorrere il dito sul tessuto fa percorrere più spazio e impiegare più tempo. Un estremo del wormhole di Interstellar è vicino a Saturno, e sarebbe dunque a portata di mano di un’astronave terrestre: per coprire la stessa distanza la sonda Cassini-Huygens ci mise sette anni, dal 1997 al 2004, mentre la navicella Endurance del film ci mette due anni, tenendo gli astronauti stanno in ibernazione per non farli annoiare troppo.

Quando l’equipaggio si risveglia, ormai nei pressi di Saturno, vede il pianeta esattamente come nelle straordinarie immagini scattate dalla sonda Huygens fino al 2017, che mostrano da vicino i famosi anelli, l’ombra che Saturno getta su di loro, e la Terra ormai ridotta a un puntino luminoso nel cielo nero. Quanto al wormhole che gli astronauti vi trovano, è largo solo un paio di chilometri e molto più corto, anche se collega due punti dell’universo distanti in realtà dieci miliardi di anni luce: essendo piccolo e debole, era difficile osservarlo dalla Terra, perché quasi non distorce la luce delle stelle, ma in compenso è facile imboccarlo e percorrerlo, perché esercita un’attrazione gravitazionale inferiore a quella del nostro pianeta.

All’altro suo estremo c’è un buco nero rotante, che sta fagocitando una stella di neutroni che gli orbita attorno. Come previsto da Einstein, questo processo genera onde gravitazionali, che nel film passano attraverso il wormhole e arrivano a perturbare il Sistema Solare. Tramite il rilevatore LIGO progettato nel 1983 da Thorne, le onde gravitazionali possono essere rilevate sulla Terra: questo succede nel film del 2014, e conduce alla scoperta del wormhole, ma successe anche due anni dopo nella realtà, e valse a Thorne il premio Nobel per la fisica del 2017.

Passando attraverso la scorciatoia del wormhole, l’Enterprise arriva in breve tempo da Saturno nelle vicinanze di Gargantua, un buco nero grande come l’orbita della Terra, cento milioni di volte più massiccio del Sole, e in rotazione su se stesso nel tempo di un’ora terrestre, a una velocità prossima a quella della luce. Attorno al buco nero c’è un disco che intrappola il gas emesso dalle stelle che esso cattura e smembra, analogo all’anello di Saturno che intrappola i detriti catturati dal pianeta: ci si può dunque aspettare che le immagini del buco nero siano simili a quelle di Saturno scattate dalla sonda Huygens.

Ora, quando la sonda si trovava in opposizione al Sole e sul piano equatoriale di Saturno, ne vedeva comunque gli anelli illuminati e distorti, benché fossero in ombra, e il pianeta appariva circondato da un alone luminoso: in entrambi i casi, si trattava di effetti ottici dovuti alla diffusione della luce del Sole nell’atmosfera del pianeta. E anche la navicella, quando si trova sul suo piano equatoriale, vede Gargantua in un alone luminoso, e il suo disco molto distorto: in questo caso, per gli effetti ottici dovuti alla forte gravità del buco nero, che per lo stesso motivo appare a sua volta non perfettamente sferico, ma schiacciato nella direzione della sua rotazione, in quella che è la prima rappresentazione corretta di un buco nero in un film di fantascienza.

Quanto alle fantastiche manovre della navicella Enterprise, sono simili a quelle realmente effettuate a suo tempo dalla sonda Cassini-Huygens: entrambe sfruttano le cosiddette “fionde gravitazionali”, con la differenza che nel secondo caso le fionde erano dei pianeti ruotanti attorno al Sole (Venere, la Terra e Giove), mentre nel primo caso sono dei piccoli buchi neri orbitanti attorno a Gargantua.

Quest’ultimo ha anche due satelliti, il pianeta oceano di Miller e quello ghiacciato di Mann, che prendono i nomi da due astronauti che la NASA vi aveva mandato in avanscoperta, qualche anno prima della missione dell’Enterprise. Poiché entrambi i pianeti girano attorno a un buco nero, e non a una stella, ricevono luce e calore soltanto dal disco di gas ad altissima temperatura che circonda Gargantua. Il pianeta di Miller ha un’orbita circolare molto vicina all’orizzonte degli eventi del buco nero, e subisce dunque gli effetti della sua tremenda gravità: in particolare, a causa della contrazione relativistica del tempo causata dalla materia, una sua ora equivale a sette anni terrestri. Il pianeta di Mann ha invece un’orbita ellittica molto eccentrica e allungata, analoga a quella della cometa di Halley nel Sistema Solare.

Nessuno dei due pianeti è adatto alla colonizzazione, per le condizioni climatiche estreme in cui si trovano. In particolare, il pianeta di Miller offre sempre la stessa faccia al buco nero, come fa la Luna con la Terra, gira attorno a Gargantua in meno di due ore, a circa metà della velocità della luce, e ogni ora il suo oceano è spazzato da una gigantesca onda alta più di un chilometro, provocata da quelle che non a caso si chiamano “forze di marea gravitazionale”. Il pianeta di Mann passa invece la maggior parte del tempo lontano dal buco nero e dal suo disco di gas, ed è dunque completamente ghiacciato.

Nell’ultima parte del film le vie dei due astronauti superstiti si separano. La comandante Amelia Brand e il robot CASE andranno a fondare una colonia sul pianeta desertico Edmunds, che orbita attorno alla stella a neutroni Pantagruele, situata a un anno di viaggio da Gargantua. Il nome della stella e quello del buco nero sono un ovvio riferimento alle grottesche avventure di Gargantua e Pantagruele di François Rabelais (1532–1534), così come il nome dell’Endurance rimanda alla nave dell’esploratore polare Ernest Shackleton, che naufragò epicamente fra i ghiacci dell’Antartide nel 1915.

Il pilota Joseph Cooper e il robot TARS si inabissano invece nel buco nero, alla ricerca di dati scientifici che sulla Terra permetteranno a John Brand e Murphy Cooper, rispettivamente padre di Amelia e figlia di Joseph, di completare l’equazione della gravitazione quantistica a cui stanno lavorando da decenni: l’equazione nel film occupa varie lavagne di formule, derivate e scritte personalmente da Thorne stesso. I dati raccolti nel buco nero servono a capire come il nostro universo quadridimensionale sia in realtà immerso in uno spazio-tempo pentadimensionale, così come la superficie bidimensionale della Terra è immersa nello spazio tridimensionale: questo permetterà alla NASA di comprendere le anomalie gravitazionali, e sfruttarle per trasferire una colonia terrestre sul pianeta Edmunds, impedendo l’estinzione dell’umanità.

Il motivo per cui Interstellar, a differenza di Contact, può permettersi di far passare Cooper indenne attraverso Gargantua è che oggi, a differenza di qualche decennio fa, sappiamo che “c’è del metodo nella follia” inscenata da un buco nero attorno a chi ci cade dentro. Precisamente, a causa del rallentamento del tempo, sopra di lui si affollano le cose che vi cadono in seguito (infalling), e sotto di lui quelle che vi sono cadute in precedenza (outflying): fino a quando chi cade non viene raggiunto dall’ondata di ciò che lo segue, o non raggiunge quella di ciò che lo precede, la sua vita è salva.

Il problema è riuscire a evadere prima che una delle due catastrofi accada. Qui ci vuole la bacchetta magica, che nel film è un ipercubo nel quale Cooper casca miracolosamente, e che altrettanto miracolosamente lo trasporta lungo la quinta dimensione nel wormhole, proprio nel momento in cui l’Enterprise ci sta entrando, e giusto in tempo per stringere la mano ad Amelia come un fantasma, in un finale di pura fantasia che strizza l’occhiolino allo spettatore frastornato dalla scienza del film.

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