Il 18 febbraio il governo della Nuova Zelanda ha annunciato che da giugno le studentesse delle scuole riceveranno gratuitamente gli assorbenti igienici, come era già stato fatto in Scozia nel 2018.Questo genere di riforma si inserisce all’interno di un problema di fondo: la tassazione dei prodotti igienici femminili.

Non è la prima volta che quest’anno si parla di tampon tax. All’inizio del 2021, il Regno Unito di Boris Johnson, appena uscito dall’Unione europea, ha abolito completamente l’imposta, che già dal 2001 era ridotta al per cento.

Come ogni volta in Italia si apre un fronte di dibattito e una discussione da parte dell’opinione pubblica. Un dibattito doveroso, dal momento in cui questa imposta rappresenta, senza troppi giri di parole, una istituzionalizzazione della discriminazione di genere.

Si tratta di una discriminazione economica di tipo indiretto. Non c’è scritto da nessuna parte e in nessuna legge che una donna nel mondo pagherà più di un uomo un assorbente, ma una donna userà un assorbente sicuramente più di un uomo.

Un modello maschile di società 

Se si vuole cercare di ragionare sulle origini di tale discriminazione sul piano sociale, legislativo ed economico, bisogna partire da quelle che sono le ragioni culturali della stessa. La premessa è semplice: il modello sociale, quello su cui le leggi sono calibrate, rimane quello maschile. Lo standard medio delle leggi è sempre stato ed è il bisogno dell’uomo, che non vede nelle mestruazioni e negli assorbenti igienici un bisogno primario.

Seguendo questo modello, le mestruazioni vengono presentate agli occhi della legge non come un evento biologico e incontrollabile, ma come un qualcosa di disponibile alla volontà della donna. Tassare, come avviene in Italia, gli assorbenti igienici come un bene di lusso sottende proprio questo: la donna può decidere se acquistarli o meno, ed essendo un acquisto di tipo opzionale, l’imposta sul valore deve essere quella per i beni non di prima necessità.

Dov’è l’uguaglianza?

Si capisce allora come tale imposta abbia un valore discriminatorio che non può essere ignorato da uno stato e dall’Unione europea, che fa dell’uguaglianza un proprio imprescindibile principio cardine. Questa tesi viene argomentata e sostenuta in un saggio del 2017 intitolato Tampon tax, discrimination and human rights, in cui Bridget J. Crawford cerca di analizzare il presupposto teorico alla base della Tampon tax nel mondo.

Partendo da un’analisi storica, Crawford spiega come nel tempo si siano sviluppati una serie di miti, leggende, pregiudizi e stereotipi intorno al “mistero” del corpo femminile, dall’antico divieto di lavarsi i capelli o andare in piscina all’immaginario collettivo della donna isterica, considerata per molto tempo come una malattia mentale esclusivamente femminile e che solamente nel 1987 è stata eliminata dall’elenco ufficiale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association.

Questa ignoranza di fondo rispetto ai bisogni biologici delle donne si sviluppa in una quantificazione totalmente errata dei bisogni stessi della donna durante le mestruazioni, che portiamo avanti ancora oggi. La prima astronauta donna si chiamava Sally Ride. Nel 1983 prima di partire per la missione in orbita di una settimana, gli ingegneri le chiesero se le bastassero un migliaio di assorbenti per la durata del viaggio. 

Il fenomeno in Italia

In Italia un errore molto simile è stato compiuto dalla ragioneria di stato, nel calcolare i costi di un’eventuale riduzione dell’imposta per l’approvazione della legge di bilancio per l’anno 2021.

Come ha spiegato Laura Boldrini, i prodotti igienici in Italia continuano ad essere tassati per la maggior parte al 22 per cento, considerando di fatto gli assorbenti beni di lusso, nonostante da anni ormai molte associazioni si battano per la riduzione dell’imposta. Oltre confine, molte realtà europee e occidentali hanno optato addirittura per l’abolizione della tassa.

Nel nostro paese gli introiti statali sull’Iva imposta ai prodotti igienici hanno un valore di 515 milioni di euro annuali. La ragioneria di Stato ha valutato 300 milioni di perdita se l’emendamento fosse stato approvato. I conti li ha rifatti l’Onlus WeWorld, che considera quella cifra sovrastimata: su 515 milioni di euro, scorporando l’Iva, l’intervento di riduzione dell’aliquota dal 22 al 5 per cento fa una differenza di 72 milioni. L’errore di fondo? La Tesoreria parte dall’assunto che una donna utilizzi in media tre pacchi di assorbenti in un solo mese.

In Europa

Una serie di incomprensioni concatenate a pregiudizi mai completamente debellati che portano a compromettere, anche per quest’anno, la possibilità alle donne italiane di vedersi tutelate e non discriminate dall’ordinamento italiano.

Se poi volessimo analizzare la normativa in Europa, noteremmo come la direttiva del 2006 sull’uniformazione per l’imposta sul valore aggiunto permette agli stati membri di ridurre l’aliquota sugli assorbenti solo fino al 5 per cento, impedendo di fatto agli stati di annullarla completamente, cosa che la Gran Bretagna ha fatto non a caso in concomitanza con la Brexit.

In Italia anche solo raggiungere la soglia del 5 per cento sarebbe già un enorme traguardo. La tampon tax, tuttavia, è un problema che non riguarda solo la nostra nazione, ma un intero sistema che si basa su errori concettuali che, un passo dopo l’altro, dovranno essere lentamente riconosciuti ed eliminati, per un mondo più equo e inclusivo.

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