Il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, si è impuntato: la legge elettorale in senso proporzionale deve essere approvata almeno alla Camera entro il 20 settembre, data del referendum costituzionale sulla legge sul taglio del numero dei parlamentari. Ma l’obiettivo è sempre più lontano.

Il testo attuale è quello su cui la maggioranza, meno Liberi e uguali, aveva trovato una convergenza a gennaio, il cosiddetto “Brescellum”, dal nome del primo firmatario Giuseppe Brescia, deputato del Movimento 5 stelle.

La legge prevede un sistema proporzionale, con soglia di sbarramento al cinque per cento. È previsto il cosiddetto “diritto di tribuna” per i piccoli partiti: alla Camera sono eletti i candidati dei partiti che ottengono almeno tre seggi in almeno due regioni; al Senato i candidati che ottengono almeno un seggio nella circoscrizione regionale. Sparisce il collegamento tra le liste.

Per quanto riguarda i collegi, il “Brescellum” abolisce quelli uninominali e il territorio nazionale viene suddiviso in soli collegi plurinominali, con delega al governo di predisporli entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della nuova legge, tenendo conto anche dell’esito del referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari.

Se il referendum confermasse la legge costituzionale approvata, infatti, i senatori passerebbero da 315 a 200 e i deputati da 630 a 400.

Nella maggioranza l’intenzione è di valutare nel dibattito parlamentare l’opportunità di introdurre il voto di preferenza tra i candidati in lista.

Il perché dell’accelerazione del segretario del Pd ha tre ragioni.

La prima riguarda i rapporti interni alla maggioranza. Il segretario vuole garantire alleanza politica con il Movimento 5 stelle, che aveva legato la sopravvivenza del secondo governo Conte all’approvazione della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari.

L’iter era iniziato durante il precedente governo, formato dalla Lega e dai Cinque stelle, con il voto contrario del Pd, che aveva poi accettato di modificare il suo orientamento. I democratici avevano posto una condizione: la revisione dei regolamenti di Camera e Senato e la modifica della legge elettorale “per scongiurare rischi di pesanti distorsioni della rappresentanza”, come ha detto Zingaretti nella direzione del Pd.

La seconda ragione: Zingaretti vuole mostrare l’inaffidabilità di un alleato che si rimangia i patti ed è pronto a votare con l’opposizione. Anche a costo di destabilizzare il governo proprio quando ha incassato credibilità in Europa e consensi in Italia, grazie al risultato politico ottenuto a Bruxelles nella trattativa sul Recovery fund.

Il partito di Renzi ha posto il veto sull’approvazione del testo e chiede la riscrittura della legge elettorale in senso maggioritario. Soprattutto ha sostenuto che non è opportuno occuparsi ora della riforma. Tutto questo dopo che Italia viva, a gennaio, aveva certificato l’accordo politico con la maggioranza.

La terza ragione ha a che fare con l’elezione del presidente della Repubblica. Portare la legge elettorale in parlamento entro settembre significa che l’approvazione definitiva al Senato potrebbe ragionevolmente avvenire nel corso del semestre bianco del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che inizia nel settembre 2021. Cioè nel semestre in cui il capo dello stato non può sciogliere le Camere. Questo garantirebbe sia la durata del governo fino al 2022, sia che il futuro inquilino del Quirinale venga eletto dall’attuale parlamento. Il piano per il momento è arenato. Zingaretti è bloccato dai numeri in commissione Affari costituzionali alla Camera.

Mercoledì il Pd ha provato a forzare e a chiedere il voto sul testo base, ma il presidente della commissione, Brescia, ha dovuto constatare l’irregolare composizione della commissione sollevata dalle opposizioni e ha rinviato tutto. Una volta ripristinata la composizione, i democratici sono tornati all’attacco, chiedendo la convocazione di un ufficio di presidenza per spostare il voto all’inizio della prossima settimana. Ma il tentativo del Pd, sostenuto anche dai 5 Stelle e da Leu, è fallito. I capigruppo non hanno stabilito nemmeno quando la legge elettorale andrà in aula: di certo non il 27 luglio, la data fissata in precedenza.

“Italia viva ha tradito il patto”, ha detto Zingaretti, furente. Ma a sconsigliare di andare avanti con la forzatura in commissione e a non capire l’impuntatura del segretario erano stati gli stessi deputati del Partito democratico. “La maggioranza in prima commissione è appesa a un filo e i numeri dicono che il testo base rischia di reggere per un voto”, dice un deputato democratico dell’ex corrente renziana.

“Se Zingaretti si ostina su questo testo base, che noi abbiamo detto di non condividere, sarà la sua stessa forzatura a mostrare la crisi della maggioranza”, dice un deputato di Iv.

Ora Italia viva vuole rinviare il problema: “In questo momento i problemi del paese sono altri e la stessa legge costituzionale sul taglio dei parlamentari che passerà dal voto referendario prevede una delega di sei mesi per riscrivere la legge elettorale”, dice il deputato.

Il rischio è che a uscire sconfitta sia tutta la maggioranza, e soprattutto il Pd. Forzare la mano in commissione scontrandosi con Italia viva, infatti, significa riportare al centro del dibattito pubblico un tema divisivo e poco amato dai cittadini come la legge elettorale.

Il Pd rischia così di vanificare il successo mediatico dell’accordo europeo trovato dal governo sul il Recovery fund.

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