Dopo 35 giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, Joe Biden ha ordinato il primo attacco militare della sua presidenza. Nella notte fra giovedì e venerdì due F15 americani hanno bombardato le postazioni sul confine siriano da cui due gruppi di milizie filoiraniane hanno lanciato alcuni attacchi nelle scorse settimane contro i soldati della coalizione a guida americana nell’area.

Biden ha approvato un intervento più contenuto di quello suggerito dai vertici del Pentagono e ha evitato di colpire obiettivi oltre il confine dell’Iraq, curandosi di avvertire con qualche minuto di anticipo rispetto all’azione anche i russi.

Si valuteranno nel tempo gli effetti dell’azione sui rapporti con l’Iran, che il presidente ha promesso di riallacciare dopo che Donald Trump ha polverizzato l’accordo nucleare faticosamente negoziato dall’amministrazione Obama.

Il problema interno

Ma il problema di Biden è anche interno. L’operazione militare di giovedì assomiglia a quella ordinata nell’aprile del 2018 da Trump – quella volta in risposta a un attacco con le armi chimiche del regime di Bashar el Assad – e che era stata definita dai democratici «incostituzionale» e «illegale», dal momento che la Casa Bianca non aveva chiesto l’approvazione del Congresso e aveva invece agito sotto la tutela dell’articolo II della Costituzione, che regola i poteri militari del presidente.

La leadership democratica questa volta non ha mosso obiezioni sostanziali all’operazione, salvo alcune eccezioni, fra cui il deputato Ro Khanna, membro della commissione esteri: «Non c’è assolutamente nessuna giustificazione perché il presidente autorizzi un bombardamento che non sia difensivo senza l’autorizzazione del Congresso», ha detto.

La posizione di Khanna è significativa non solo perché dà voce a un certo malumore nel campo democratico sull’internazionalismo muscolare che inevitabilmente Biden si troverà a interpretare, ma perché indica un possibile errore di prospettiva del presidente: pensare che dopo quattro anni di disastri e disdoro di Trump, culminati con l’insurrezione di Capitol Hill, ora gli americani possano accettare più o meno qualunque cosa in nome della retorica del ritorno alla normalità e della ricucitura dell’unità nazionale lacerata.

Biden ha approfittato parecchio del momento di invulnerabilità concesso dal contrasto con il predecessore per comporre un governo che in condizioni normali sarebbe stato indigesto a molti democratici.

La sua Casa Bianca pullula di ex lobbisti, triangolatori clintoniani e ripescati a vario titolo da quel sottogoverno da vecchio establishment che non può piacere ai progressisti di Alexandria Ocasio-Cortez. La consigliera Anita Dunn, potentissima lobbista e operatrice politica che ha maneggiato il potere a Washington in tutte le sue forme, è il caso esemplare di una nomina che senza lo sfondo dello scampato pericolo sarebbe stata più complicata da far digerire.

Giusto qualche giorno fa un libro dei cronisti Jonathan Allen e Amie Parnes ha dato conto di una sua frase a porte chiuse: «Il Covid è stata la cosa migliore che è capitata a Biden».

La protezione interna di cui Biden pensa di godere dopo il disastro trumpiano sta dando già qualche segno di cedimento. La nomina di Neera Tanden, rappresentante dei vecchi riferimenti di potere piuttosto sbrigliata nell’uso di Twitter, all’ufficio budget è in bilico, anche in virtù dell’opposizione interna, e anche altri provvedimenti cari ai progressisti non se la passano bene.

Un’operazione militare, per quanto limitata, non contribuisce a migliorare il clima interno, e suggerisce forse che non basta evocare un pessimo passato per giustificare un presente così così.

 

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