Il senatore più potente degli Stati Uniti si chiama Joe Manchin, è un democratico e viene dalla West Virginia, stato impervio e montuoso fondato sulle miniere di carbone. Da quando è stato eletto per la prima volta governatore, nel 2004, Manchin si definisce un «democratico moderato conservatore», che sarebbe un ossimoro ovunque tranne in West Virginia, stato dove anche gli elettori più progressisti sono dei cripto-trumpiani formalmente affiliati al Partito democratico.

Alle elezioni dello scorso novembre i democratici hanno riconquistato il Senato, ma con una maggioranza che più sottile non si potrebbe: 50 democratici e 50 repubblicani, con la vicepresidente, Kamala Harris, a risolvere la parità in favore della sinistra.

Questa composizione ha avuto l’effetto di aumentare a dismisura il peso specifico del voto di Manchin, il più conservatore dei democratici, che da anni ha fatto capire, a parole ma soprattutto con i voti, che lui risponde innanzitutto al suo elettorato e solo in seconda battuta alla leadership del partito a Washington. In sostanza, oggi Manchin è più influente anche del leader della maggioranza al Senato, Chuck Schumer, e sta già ampiamente esercitando il suo potere per mettersi di traverso al suo partito.

Contro la nomina di Tanden

La settimana scorsa ha annunciato che non voterà la nomina di Neera Tanden all’Office of Management and Budget, un posto cruciale da cui cui passa la supervisione del bilancio presentato dalla Casa Bianca e tutte le valutazioni sull’impatto economico delle riforme.

Manchin si è accodato alle critiche dei repubblicani sulla scelta della candidata, un’operatrice politica cresciuta nell’universo delle relazioni clintoniane. Tanden è accusata di non avere una preparazione adeguata in materia di bilancio e soprattutto di avere condotto negli anni una campagna permanente e livorosa contro gli avversari politici, con ampio ricorso a tweet sopra le righe.

Manchin ha detto che «le sue dichiarazioni apertamente faziose avranno un impatto tossico e negativo» sul lavoro di un ufficio improntato alle relazioni bipartisan e cinghia di trasmissione fra Casa Bianca e Congresso.

A parte l’ironia di accusare qualcuno di eccessi verbali sui social dopo aver tollerato per quattro Trump, Manchin si trova in una posizione di forza, e ora i democratici dovranno trovare almeno un voto fra i repubblicani per confermare la nomina oppure cambiare candidato.

I compagni democratici accusano il senatore di un combinato disposto di sessismo e razzismo (Tanden è di origine indiana) e Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata capofila dell’ala progressista, tuona contro di lui; ma il senatore sa che oggi il suo partito ha più bisogno di lui di quanto lui abbia bisogno del partito. Il presidente, Joe Biden, dopo aver difeso con forza la nomina ora sta approntando un piano alternativo per cautelarsi, e ieri due interrogazioni in commissione sulla questione sono state rimandate, per prendere tempo. Brutto segno per la Casa Bianca: cambiare candidato in corsa sarebbe un segnale politico disastroso.

Con la battaglia sulla nomina di Tanden il senatore di cui sentiremo parlare spesso in questi anni sta affermando la sua capacità di influenzare un partito di cui si è parlato soprattutto per le spinte interne verso sinistra, e molto meno per il ruolo dei moderati e dei centristi.

Gli altri fronti

Ma non è certo l’unico fronte su cui Manchin è in aperto dissenso sulla linea. È contrario all’abolizione della procedura di ostruzionismo parlamentare che i democratici propongono da anni, non vuole che nel pacchetto per la ripresa sia incluso anche l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari l’ora, si oppone al medicare for all, il sistema sanitario universale spinto dai progressisti, chiede il ritiro immediato delle truppe dall’Afghanistan e la riduzione della presenza militare americana ovunque.

Difensore del diritto di possedere armi da fuoco garantito dal Secondo emendamento, soltanto dopo la strage di Sandy Hook del 2012 Manchin si è trovato sotto attacco della lobby delle armi per aver moderato leggermente la sua posizione. Ma in genere quando i democratici meditano una proposta di legge restrittiva per le armi, lo contano fra gli oppositori.

Manchin è anche uno dei pochissimi membri democratici del Congresso a definirsi pro-life e in diverse occasioni si è allineato ai conservatori sul tema. Nel 2015 ha infranto gli ordini di partito votando una proposta di legge per tagliare i fondi a Planned Parenthood e due anni fa è stato uno dei tre democratici a votare assieme alla destra un disegno di legge per obbligare i medici a prendersi cura dei bambini nati ancora in vita dopo un tentativo fallito di aborto. 

Mentre tutti i commentatori erano concentrati a descrivere lo spostamento dell’asse del Partito democratico verso sinistra, trainato dalla corrente progressista, Manchin parlava di una «opportunità d’oro per unire il paese e lavorare insieme», inno centrista reso politicamente rilevante dalla delicatissima posizione che il senatore si trova ad occupare nella maggioranza. 

Negli anni di Trump e della maggioranza repubblicana al Senato i voti da guardare con attenzione erano quelli dei tre repubblicani più moderati, Susan Collins, Lisa Murkovski e Mitt Romney, i quali tuttavia avevano – per ragioni diverse – margini di indipendenza dalla linea partito ma anche legami strutturali con la macchina repubblicana tali da consigliare prudenza nelle iniziative. E comunque ci voleva la decisione di tutti e tre per far andare sotto la maggioranza.

Manchin è invece il voto solitario e decisivo del Senato, e può muoversi a briglia sciolta, forte di una base elettorale granitica e di un seggio blindatissimo. Nella Washington di Manchin pesano più i centristi che i progressisti. 

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