A prima vista, focalizzarsi su Taiwan come punto caldo preoccupante del mondo può sembrare una scelta strana. Lo scorso anno è stato testimone di un insolito numero di disordini: le devastazioni causate dall'epidemia di coronavirus e la conseguente ricaduta economica globale, l'approfondimento del dissenso politico negli Stati Uniti, l'indebolimento della leadership internazionale americana e il nazionalismo, l’intolleranza e l’isolazionismo in ascesa in tutto il mondo.

Sottoposto a queste pressioni, l'intero ordine instauratosi nel secondo dopoguerra sembra stia per crollare.

Al confronto, la disputa sullo status di Taiwan è una questione irrisolta risalente a un'epoca diversa e probabilmente oramai passata. Iniziato settant'anni fa, lo stallo tra i governi rivali di Pechino e Taipei ha attraversato fasi di tensione e a volte di nervosismo, ma è altresì rimasto confinato principalmente in una retorica infuocata senza mai sfociare in un conflitto reale, fortunatamente per la prosperità e la stabilità dell'Asia orientale.

Ma tutti questi cambiamenti drammatici stanno convergendo intorno al vecchio conflitto, rendendolo nuovamente attuale.

L'alterato equilibrio globale del potere e le politiche che cambiano in Oriente e Occidente stanno minando lo status quo fra le parti in stallo nello Stretto di Taiwan.  

Con la sua recente assertività la Cina cerca di riaffermare la sua tradizionale posizione di potenza di primo piano in Asia orientale, così come le divisioni politiche e il provincialismo dell’"America First" hanno suscitato dubbi sull'impegno di Washington a sostenere il proprio sistema internazionale.

In momenti di tensione come questi, Taiwan rappresenta una faglia naturale di vulnerabilità.

Pechino ha fatto salire tensioni e allarmismo, intensificando la pressione militare su Taiwan ad un livello senza precedenti per decenni. Nella seconda metà del 2020, le forze armate di Pechino hanno condotto una fitta serie di esercitazioni militari, aeree e terrestri, insolitamente vicino all'isola per intimidire i suoi leader e la sua popolazione.

Il governo di Pechino sembra aver completamente abbandonato il concetto di "linea mediana", quella linea di demarcazione non ufficiale nello stretto di Taiwan, che è stata una salvaguardia contro incidenti militari imprevisti. Questi eventi hanno spinto il ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu a lanciare un monito a chiunque intendesse prestare ascolto, sull’escalation del rischio d’invasione dell'isola da parte della Cina.

La svolta di Xi

Ciò che è cambiata maggiormente è la situazione politica di Pechino. Il presidente Xi Jinping ha guadagnato più potere di qualsiasi altro leader cinese dai tempi di Mao e ha giustificato questo controverso passaggio verso il totalitario dipingendosi come il più grande difensore degli interessi nazionali cinesi.

La sua statura politica interna lo costringe quasi ad assumere una linea più dura negli affari internazionali, soprattutto verso un punto dolente come Taiwan.

A woman wears a Christmas-patterned mask to protect against the spread of the coronavirus in Taipei, Taiwan, Thursday, Dec. 24, 2020. (AP Photo/Chiang Ying-ying)

I comunisti cinesi di Pechino continuano a rivendicare Taiwan, provincia canaglia, che fa parte a pieno titolo della loro Repubblica Popolare Cinese. Allo stesso tempo, Xi ha perseguito una politica estera più energica su quasi tutti i fronti – dal contestato confine con l'India alle dispute diplomatiche con l'Australia, il Canada e altri paesi – apparentemente incoraggiata dal maggiore peso politico ed economico della Cina.

Nel contempo, vista da Pechino, anche Taiwan appare più minacciosa. Tradizionalmente, l'élite politica dell'isola ha sostenuto la posizione generale secondo cui l'obiettivo finale rimane la riunificazione con la Cina continentale. Dopotutto, il governo a Taipei – Repubblica Cinese – è stato ristabilito dai nazionalisti fuggiti sull'isola dopo la sconfitta nella guerra civile cinese nel 1949. Ma Taiwan sta diventando sempre più indipendente e i sondaggi mostrano che una parte sempre più ampia della popolazione si definisce "taiwanese" in contrapposizione a "cinese" ed è favorevole a dichiarare Taiwan uno stato sovrano a tutti gli effetti.

L'attuale presidente, Tsai Ing-wen, ora al suo secondo mandato, fa parte del Partito Progressista Democratico, un movimento politico locale, che non condivide il malinconico desiderio dei nazionalisti di tornare alla Cina. Il suo governo si sta rivolgendo al resto del mondo per ottenere maggiore sostegno, soprattutto a Washington.

Gli Stati Uniti e Taiwan hanno recentemente concordato di tenere un dialogo economico annuale e, con Washington fortemente adirata con la Cina, è molto probabile che l'amministrazione entrante di Joe Biden continui a mostrare un forte sostegno al governo di Taipei, cosa che certamente farà ribollire il sangue a Pechino.

Tutto questo aumenta il rischio di una guerra. Con Washington distratta dalla pandemia di coronavirus e dai suoi stessi battibecchi politici, Xi potrebbe per un attimo presagire l’opportunità di piombare su Taiwan.

Il monito di Hong Kong

Vi è la possibilità che Xi veda la sua presa di potere a Hong Kong come prova che, attaccando Taiwan, potrebbe farla franca. Nella visione di Pechino, Xi è riuscito a schiacciare il movimento filo-democratico dell'ex colonia britannica con una ricaduta internazionale contenuta.

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Eppure, Hong Kong potrebbe facilmente servire da monito. Pechino ha dovuto fare di tutto per sottomettere l'opposizione anticomunista della città, pur controllandone l’amministrazione e le forze di sicurezza, con il sostegno di un'ampia fascia della dirigenza politica ed economica locale.  Rispetto a Taiwan, Pechino non gode di questi vantaggi.

Al contrario, si troverebbe di fronte a un governo ostile, determinato a resistere con il proprio esercito, e a una popolazione che difficilmente si sottometterebbe.

Se Xi cercasse di conquistare Taiwan e fallisse o mettesse in campo l'Esercito Popolare di Liberazione costringendolo in una palude – protetta e costosa, in stile vietnamita – potrebbe distruggere la sua posizione politica in patria.

Tuttavia, anche se Pechino non è intenzionata a sferrare un’invasione, è improbabile che le tensioni nello stretto si riducano. Pechino ha chiaramente compreso che è necessaria una maggiore coercizione e intimidazione per mettere in ginocchio una Taiwan sempre più capricciosa. Già questo si traduce in un innalzamento della possibilità di una guerra.

La maggiore quantità di equipaggiamenti militari dislocata nell'isola potrebbe accidentalmente innescare un conflitto, se qualche pilota nervoso non riuscisse a frenare l’istinto di premere il grilletto. Purtroppo, in un mondo in cui tanto è nuovo, non possiamo sfuggire ai nostri vecchi problemi.

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