Paradossalmente ci volevano le dichiarazioni del presidente americano, Joe Biden, e del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, per far convergere le posizioni dell’Ucraina e della Russia per qualche giorno e stemperare il clima di tensione tra i vari attori coinvolti.

Il ministro della difesa ucraino, Aleksej Reznikov, sostiene che la situazione al confine con l’Ucraina è identica a quella dell’anno scorso; non bisogna temere nessun attacco imminente perché la Russia non ha creato un gruppo offensivo che possa costituire un segnale concreto di invasione.

Anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si è rivolto alla popolazione per placare la tensione affermando che gli allarmi su una invasione russa sono solo “voci” alimentate dai partner occidentali.

Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha ribadito che un dislocamento di 8500 soldati americani nei paesi baltici e nell’Europa orientale “non ha alcuna influenza sulle trattative in corso tra Russia e gli Stati Uniti” e la Russia non commetterà “azioni isteriche” come le controparti.

Tuttavia, chi segue la politica interna ucraina non è stupito/a dal fatto che il presidente Zelensky è alquanto volubile e tende a cambiare molto spesso idea, disorientando gli interlocutori e causando anche “equivoci” e “fraintendimenti” che in questo periodo sarebbe bene evitare.

Le contraddizioni di Zelensky

Ukrainian President Volodymyr Zelensky listens to a reporter's question as he waits for United States Secretary of State Antony Blinken before their meeting at the Bankova, Wednesday, Jan. 19, 2022, in Kyiv, Ukraine. (AP Photo/Alex Brandon, Pool)

Dopo aver rassicurato gli ucraini, il giorno dopo Zelensky ha, infatti, affermato che l’invasione ci sarà e comincerà dalla città di Kharkov. Si è trattato di una dichiarazione che ha portato lo stesso sindaco di Kharkov, Igor Terekov, a rilasciare un’intervista per «rassicurare i residenti. Finché sarò io il sindaco, non permetteremo a nessuno di prendere la città, nemmeno alla Russia».

Stesso approccio contradittorio di Zelensky in questi mesi sulla questione degli accordi di Minsk e la disponibilità ad incontrare il presidente Vladimir Putin: dalla volontà di negoziare e risolvere la situazione, accettando le proposte di Minsk e gli sforzi di negoziazione fatti dai paesi del “formato Normandia” (Francia, Germania, Russia e Ucraina) a dichiarazioni che l’obiettivo e la filosofia dell’Ucraina devono basarsi sulla ripresa della Crimea a qualsiasi costo.

Sebbene lo scontro abbia assunto una dimensione internazionale, efficacemente descritta come “la Russia contro l’occidente” (si legga Sttai Uniti), è utile tenere in considerazione anche il ruolo dell’élite ucraina per capire quanto sia problematica una risoluzione pacifica del conflitto in atto senza una volontà concreta, costante e pragmatica della presidenza di Zelensky.

Il consolidamento democratico incerto

Dalla dichiarazione d’indipendenza del 1991, l’Ucraina ha sostenuto un percorso di democratizzazione denso di ostacoli di natura sociale ed economica oltre alla polarizzazione - una parte settentrionale più filooccidentale e una meridionale filorussa – che ha costituito un terreno fertile di rivendicazioni e scontro tra due visioni dell’ordine internazionale contrapposte.

A ciò si aggiunga la posizione geografica dell’Ucraina che ha contribuito, più degli altri paesi post-sovietici, a rallentare il suo consolidamento democratico e sviluppo economico, rappresentando uno sbocco strategico “appetibile” nel Mar Nero. D’altronde, come fatalmente ritroviamo nel suo significato, il termine Ucraina sta proprio ad indicare la “periferia”, “il limite” che protegge i confini esterni.

Nel 1991 Samuel Huntington ha scritto: «lo sviluppo economico rende possibile la democrazia», ma è la «leadership politica che la realizza». È il compito delle élite al governo operare nell’interesse della società e sviluppare strategie per contrastare le forze ultraconservatrici e radicali perché «la storia non avanza in linea retta, ma avanza, comunque, se la spingono leader competenti e determinati».

La deluzione

Quando l’outsider Zelensky si è candidato alle presidenziali, dopo una geniale operazione di marketing con la sua serie televisiva in lingua russa, Servo del popolo, il comico ucraino ha riacceso le speranze di un cambiamento politico che avrebbe potuto finalmente determinare una svolta nel paese.

Dopo la sua elezione, con oltre il 73 per cento dei voti al secondo turno, Zelensky sembrava anche la persona più idonea per dialogare con il suo omologo russo.

Ma come spesso capita ai leader populisti, una volta al potere, si devono adattare alle regole, alle routine istituzionali, al realismo politico e, spesso, devono riconsiderare i propri programmi politici. Nel caso ucraino, l’impresa di Zelensky era difficile sia per la grave situazione economica del paese, che ormai è peggiore di quella moldava, sia per l’ostilità di quella parte di élite conservatrice, talvolta estremista, che ha reso impossibile attuare il piano di riforme necessarie per questo paese.

Anzi, il presidente Zelensky nel corso del 2021 ha decretato numerose leggi che hanno minato l’indipendenza dei media (specie filorussi) e contribuito ad alimentare sentimenti antirussi, dando seguito, ad esempio, alla legge sulla lingua ucraina, voluta dal suo predecessore, Petro Porošenko, che toglie alle lingue minoritarie, quindi anche russa, lo status di lingua regionale, limitando il loro utilizzo nella sfera pubblica. E la questione delle minoranze linguistiche ed etniche nel paese non ha favorito certamente la coesione nazionale, aggravata anche da un assetto istituzionale centralizzato, incapace di gestire le autonomie regionali.

I soldi europri non bastano

A metà del suo mandato (prossime elezioni nel 2024), l’indice del gradimento del presidente ucraino oscilla fra il 15 e 20 per cento, il suo partito non è riuscito a radicarsi sul territorio e la corruzione si attesta alla posizione 117/180, come dimostra il Corruption Index, migliorando di nove punti percentuali rispetto il 2019, ma rimanendo il peggiore in Europa.

E proprio la questione delle “mancate riforme”, la corruzione e i dubbi, espressi dalle opposizioni, sullo Stato di diritto costituiscono un reale sbarramento a qualsiasi velleità di adesione all’Ue e alla Nato.  Tutti gli attori coinvolti nella “questione Ucraina” sono consapevoli che non vi siano i requisiti fondamentali per avanzare nello “status di partner con opportunità potenziate” nella Nato.

Dal 2014 l’Ue ha stanziato 17 miliardi di euro di sovvenzioni e prestiti e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha comunicato che un nuovo pacchetto di 1,2 miliardi è stato approvato per contrastare l’attuale crisi.

Anche gli Stati Uniti hanno sostenuto l’Ucraina con centinaia di milioni di dollari per ridimensionare le richieste di adesione di Zelensky per motivi di “sicurezza nazionale”.

L’assistenza economica dell’occidente non è condizione necessaria e sufficiente per affrontare efficacemente la questione nazionale ucraina, ancor prima di quella conflittuale con la Russia.

Il cambio di rotta nella politica di Zelensky sinora non ha avuto riscontri positivi né nell’opinione pubblica (l’ultimo sondaggio evidenzia il rischio di una mancata rielezione anche contro Poros) né ha aumentato la sua credibilità a livello internazionale. E nel rebus ucraino bisogna tenerne conto.

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