A un anno dall’invasione russa in Ucraina, si intravedono segnali di indebolimento politico del presidente russo Vladimir Putin? Per rispondere a questa domanda lasciamo da parte le congetture sul suo stato di salute, recentemente tornate alla ribalta dopo l’affermazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky – «Non sono sicuro che Putin sia ancora vivo» – alla quale il portavoce presidenziale russo, Dmitrij Peskov, ha immediatamente risposto: «È chiaro che Zelensky preferirebbe che non esistesse né la Russia, né Putin».

Concentriamoci, invece, sulla “verticale del potere” che rappresenta il progetto politico e il lascito più importante del presidente Putin, messo in atto a partire dall’elezione presidenziale del marzo 2000. La costruzione di questa verticale presuppone la preminenza dell’autorità esecutiva federale sugli altri organi centrali periferici attraverso le sedi territoriali del partito Russia unita – che come il Pcus costituisce “gli occhi e le orecchie” del partito in periferia – uno staff presidenziale che coordina i rapporti tra il parlamento e il governo, i governatori locali e una cerchia ristretta (“il giardino d’oro”) di persone, composta principalmente, negli ultimi anni, dai capi delle agenzie di sicurezza russe.

Secondo le fonti del quotidiano online Meduza, la guerra in Ucraina sembra aver avviato un lento processo di sgretolamento della verticale nella quale si diffonde sempre più l’insoddisfazione sull’andamento della guerra. In sostanza, c’è chi teme un’inevitabile sconfitta con il crollo del sistema di potere e la perdita connessa di tutti i benefici accumulati in questi decenni, chi vorrebbe una soluzione pacifica del conflitto, sostituendo il presidente Putin, e chi auspica una vittoria sul campo a qualunque costo. Tuttavia, c’è una differenza sostanziale tra gli umori dei funzionari dei ministeri, dei governatori locali e dello staff presidenziale, che spesso per timore di Putin rimangono mere voci di palazzo, e chi si trova al di fuori delle istituzioni.

Distruzione totale

In particolare, sono ormai pubbliche le reazioni degli ultranazionalisti, che sostengono la completa distruzione dell’Ucraina, tra i quali spiccano le dichiarazioni di Ramzan Kadyrov, governatore della Cecenia e Evgenij Prigožin a capo dei mercenari di Wagner (il nome è stato attribuito dall’oligarca e militare Dmitrij Utkin, appassionato del compositore tedesco e del presunto carattere virile delle sue opere).

In un post del suo canale Telegram, Kadyrov sollecita l’impiego di una «piccola bomba nucleare» dopo che il generale Aleksandr Lapin ha lanciato l’ordine della ritirata delle truppe russe da Liman, riconquistata dall’esercito ucraino. Lapin, che era stato insignito dell’onorificenza di Eroe della Russia dal Cremlino, è considerato da Kadyrov un rappresentante del nepotismo e un incompetente, così come molti altri esponenti dell’esercito russo.

Il governatore ceceno non ha risparmiato critiche e accuse feroci agli ufficiali dell’esercito e alla gestione delle operazioni militari da parte del Ministero della Difesa, guidato da Sergej Shoigu. Sulla stessa linea troviamo anche il “cuoco di Putin” (il soprannome deriva dal fatto che Prigožin aveva un ristorante a San Pietroburgo dove erano soliti recarsi Putin e i suoi ospiti), che in diverse occasioni ha condiviso le dichiarazioni di Kadyrov: «Il colorito appello di Kadyrov, è vero, non è nelle mie corde, ma posso dire: “Ramzan, sei grande, vai avanti”, tutti questi sfigati devono andare scalzi con i kalashnikov al fronte». Gli esponenti del “partito della guerra” non smettono di attaccare chi fa parte del sistema di potere: non solo il ministero della difesa, ma anche i parlamentari che sono definiti “signori chiaccheroni” e sono esortati ad arruolarsi e andare a combattere.

Kadyrov e Prigožin sono riusciti ad ottenere l’appoggio di alcuni siloviki (uomini della forza), ex membri del Kgb, assegnati in posizioni chiave all’interno della struttura presidenziale, ma non in maniera così significativa da sovvertire l’ordine politico all’interno delle istituzioni. Infatti, le fibrillazioni nella verticale del potere sono in parte riconducibili all’atteggiamento degli ultranazionalisti, ma, principalmente, derivano da un’importante scadenza elettorale: le elezioni presidenziali del marzo 2024.

Successione?

Da un lato, è plausibile che Kadyrov e Prigožin abbiano ambizioni presidenziali e, seppur non siano ritenuti personaggi affidabili dalle diverse fazioni (liberali, moderati, comunisti, nazionalisti, ecc.) all’interno del Cremlino, sfruttino la guerra sul campo per rivendicare il successo da sottoporre al giudizio dell’elettorato. Dall’altro lato, non vi è ancora la decisione di Putin sulla sua successione, forse perché è condizionata dall’esito del conflitto. Questa situazione non facilita l’individuazione del profilo del candidato tra le fazioni contrarie al “partito della guerra”, sebbene si facciano i nomi di Vjačeslav Volodin, presidente della Duma di Stato, del sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin, di Sergej Kirienko, vice capo del gabinetto presidenziale e dalla figura tecnocratica e dell’impopolare ex capo del governo e presidente Dmitrij Medvedev.

Al netto degli effetti delle sanzioni economiche e delle sconfitte/vittorie sul campo militare, che possono incidere notevolmente sulle dinamiche di successione al potere, la situazione è ancora nelle mani del presidente Putin che, in questi decenni, ha applicato il principio “divide et impera” per dominare, controllare e gestire le fazioni ovvero i diversi orientamenti politici presenti nel Cremlino. In questo caso, il presidente Putin è alla ricerca della massimizzazione dei risultati militari: favorire la competizione delle fazioni interne ed esterne al sistema di potere – bellum omnium contra omnes – potrebbe, quindi, essere una strategia perseguita dal presidente e non essere assolutamente casuale.

D’altronde, sin dalla sua prima legislatura, Putin è sempre riuscito a fare la sintesi delle diverse posizioni politiche, privilegiando alcuni e allontanando altri, ma evitando la concentrazione del potere in una singola fazione. Questa interpretazione trova una prova abbastanza concreta e solida nella scelta di sostituire sei generali dall’inizio del conflitto e nel recente avvicendamento del generale Sergej Surovikin, che diventa il vice del generale Gerasimov, spostato dallo stato maggiore delle forze armate a comandare le unità impegnate in Ucraina, e del ritorno di Lapin come capo di Stato maggiore delle forze armate.

In questo modo, Putin ha mandato un segnale chiaro ai falchi della guerra, Kadyrov e Prigožin, di ridimensionamento delle loro richieste, critiche e ambizioni personali. Non poteva fare altrimenti, considerando anche il fatto che il presidente russo è Capo delle forze armate e non può inimicarsi l’apparato militare, storicamente determinante per la stabilità politica di qualsiasi paese.

Crepe nel sistema

La guerra ha evidenziato, per la prima volta da quando Putin è al potere, che la coesione all’interno della verticale del potere mostra le prime crepe, anche pubblicamente, ma è, comunque, all’inizio di un processo che potrebbe richiedere ancora tempo prima di sfaldarsi. L’esito della prossima controffensiva russa, stimata nel primo anniversario o in tarda primavera, consentirà di avere un quadro più chiaro della stabilità e della sopravvivenza politica del presidente Putin. Un’altra mobilitazione con eventuali proteste delle famiglie coinvolte in diverse parti del territorio, l’andamento negativo dell’economia e, conseguentemente, l’incapacità da parte dei governatori locali (molti dei quali dovranno essere rieletti nelle prossime elezioni locali del 10 settembre) di fornire servizi e risposte adeguate alle esigenze dei cittadini potrebbero accelerare lo sgretolamento della verticale di potere.

È plausibile ritenere che questo possa avvenire improvvisamente, ma con esiti ben diversi dalle aspettative occidentali di un cambiamento di regime. Come ricorda il politologo Gleb Pavlovsky: «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno. E quello che gli succederà sarà la copia di questo».

 

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