La riforma dell’ordinamento giudiziario è arrivata in aula alla Camera e, dopo qualche minaccia, il suo iter di approvazione sembra destinato a concludersi senza problemi.

Il timore era che il fragile equilibrio costruito in commissione fosse di nuovo sul punto di saltare – con nuovi emendamenti presentati dai partiti di maggioranza – invece dall’aula sono arrivati segnali distensivi.

Forza Italia, Partito democratico, Movimento 5 stelle, Azione e Leu non hanno presentato emendamenti, mentre la Lega ha fatto sapere che ne presenterà al massimo 5 (tutti su temi oggetto del referendum sulla giustizia del 12 giugno) e Italia viva – decisa ad astenersi nel voto finale – una cinquantina.

Fonti interne alla maggioranza, tuttavia, confermano che «l’accordo tiene» e che gli emendamenti presentati servono solo a fissare alcuni princìpi politici da parte dei due partiti, ma senza volontà di far cadere il governo. Durante il vertice di maggioranza la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha annunciato che potrebbe presentare due emendamenti «di dettaglio», che non dovrebbero sollevare obiezioni.

Risultato: il voto finale sul testo dovrebbe avvenire il 28 aprile senza fiducia, così che il provvedimento arrivi al Senato nella prima settimana di maggio. A palazzo Madama, invece, il governo potrebbe scegliere di porre la fiducia così da chiudere definitivamente il complicatissimo capitolo giustizia, in tempo per eleggere con la nuova legge elettorale il nuovo Consiglio superiore della magistratura.

Sembra quindi che il tempo per i ritocchi sia ufficialmente finito: lo stop rigido alle porte girevoli per i magistrati che si candidano in politica (con le eccezioni dei “chiamati” come tecnici nei ministeri); il fascicolo di valutazione della performance del magistrato; i nuovi illeciti disciplinari e le regole più rigide per le nomine agli incarichi direttivi e la nuova legge elettorale verranno approvati così come sono usciti dalla commissione.

Italia viva, per bocca del deputato e magistrato in aspettativa Cosimo Ferri, continua a definirla una riforma «inutile», che recepisce solo la prassi del Csm e «tutela privilegi come le doppie indennità per i magistrati apicali nei ministeri e incentiva il carrierismo».

Gli altri partiti di maggioranza, invece, rivendicano ognuno il proprio apporto nel miglioramento del testo ora in aula e ne sottolineano la portata innovativa.

Se la politica sembra essersi assestata e, per dirla con le parole della responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando, «dopo la salita si inizia a vedere la strada in pianura», così non è per la magistratura.

La posizione dell’Anm

Conferenza stampa Anm (La Presse)

Le toghe, infatti, sono in stato di agitazione e minacciano da giorni lo sciopero. L’Anm non intende rimanere in silenzio e, come ha fatto nel 2005 contro la riforma dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli, è pronta a incrociare le braccia. Tuttavia a oggi, ufficialmente, di sciopero non si può ancora parlare: l’ultima parola dovrebbe averla l’assemblea straordinaria convocata dall’Associazione nazionale magistrati per il 30 aprile. Fuori tempo massimo, considerati i tempi che si è dato il parlamento.

Dentro la magistratura, però, cova il dubbio che uno sciopero ora possa contribuire alla crisi di credibilità che gli ultimi scandali – dal caso Palamara a quello sui verbali di Amara – hanno causato alla categoria. Dunque, la giunta dell’Anm ha convocato una conferenza stampa per «spiegare le nostre buone ragioni. Non siamo una casta che si chiude e siamo consapevoli che una riforma serva, ma non quella che è all’esame del parlamento», ha detto il presidente, Giuseppe Santalucia.

Ragioni che sarebbero su due livelli: da un lato c’è il no a norme che «introducono una organizzazione gerarchica che contrasta coi valori costituzionali» e all’utilizzo «della leva del disciplinare per inibire i magistrati»; dall’altro c’è la critica più complessiva a un pacchetto di riforme della giustizia che non risolverebbero il problema della lentezza dei processi.

Eppure, lo stato di agitazione è stato indetto ora, al momento finale della riforma dell’ordinamento giudiziario che tocca direttamente le regole che disciplinano la vita professionale dei magistrati, e non quando in approvazione c’erano i ddl penale e civile, che direttamente dovrebbero ridurre i tempi della giustizia e l’arretrato.

«Questo perché non è la revisione dei riti che accelera il processo, ma avrebbe dovuto farlo la riforma ordinamentale con un’implementazione delle piante organiche e un ridisegno delle giurisdizioni, per esempio», spiega il segretario generale, Salvatore Casciaro.

Difficile capire se si arriverà allo sciopero: Santalucia non si sbilancia, parla di necessità di «ascolto» e nega «atteggiamenti di chiusura» o «pressioni sulla politica». In realtà, dai partiti non è arrivato alcun segnale di apertura e normalmente la proclamazione di uno sciopero (sebbene non ancora ufficializzata) sancisce proprio la fine della possibilità di dialogo.

La sensazione finale è che l’Anm sia stata colta alla sprovvista dalle modifiche apportate al testo in commissione. «Credevamo che il testo finale fosse quello emendato dal ministero. Le criticità della riforma sono state enfatizzate dagli emendamenti al testo ministeriale», ha detto riferendosi in particolare al fascicolo delle performance e alla riduzione a uno dei passaggi possibili dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti.

Modifica, quest’ultima, che viene considerata dalla magistratura associata come un modo per «cambiare l’assetto della Costituzione», introducendo un primo passo verso la separazione delle carriere che cozzerebbe contro il principio dell’unità della giurisdizione.

A rigore costituzionale, tuttavia, il quesito referendario che addirittura elimina ogni possibilità di passaggio da una funzione all’altra è stato ammesso dalla Corte costituzionale. «Ma c’è differenza tra la compatibilità formale con la Costituzione che è stata valutata dalla Consulta e la conformità con il senso profondo delle norme», distingue Santalucia.

La spaccatura interna

Giuseppe Santalucia (La Presse)

Al netto dei distinguo e delle ragioni elencate dalla giunta dell’Anm, tra i gruppi associativi è nato il primo dissenso interno. Se nei giorni scorsi tutti – dai conservatori di Magistratura indipendente ai progressisti di Area – si erano detti d’accordo sulla necessità di iniziative per contrastare la riforma, ora è arrivato il distinguo di Magistratura democratica. Il gruppo che si è reso autonomo da Area (a cui fa riferimento il presidente dell’Anm, Santalucia) ha infatti confermato il giudizio negativo sulla riforma ma ha criticato la gestione del sindacato delle toghe.

«L’azione dell’Anm nel contesto della riforma, ci è apparsa intempestiva, timida e incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi», si legge in una lettera inviata proprio a Santalucia, in cui si aggiunge che «l’Anm deve recuperare in fretta la sua autorevolezza nei rapporti con il governo e il parlamento». Tradotto: secondo Md l’Anm non sarebbe stata capace di fare da argine alla riforma perché troppo impegnata a tutelare posizioni corporative invece di svolgere, anche all’esterno, l’autocritica necessaria al rinnovamento della categoria.

I prossimi dieci giorni saranno cruciali: se tutto procede sui binari attuali, il parlamento approverà la riforma nella sua formulazione attuale e la magistratura andrà alla rottura, proclamando lo sciopero. Per un esito diverso, l’unica mediazione possibile dovrebbe venire dal ministero, ma da via Arenula non arriva alcun segnale.

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