L’Italia potrebbe scendere in campo per diventare il paese che, almeno in un primo tempo, sarà il più importante a livello mondiale nell’immagazzinare nel sottosuolo la Co2 (anidride carbonica) in quanto prevede di poterne stoccare fino a 300-500 milioni di tonnellate. Stando all’Eni, che ne sarà l’artefice, le operazioni dovrebbero iniziare a breve e nell’arco di pochi anni il sistema sarà in grado di stoccare sette milioni di tonnellate annue che diventeranno 50 milioni di tonnellate entro il 2050. Per riuscirci si cercherà di sfruttare i giacimenti di gas esauriti che si trovano al largo di Ravenna, nel mar Adriatico. Sarà possibile perché l’Eni conosce alla perfezione la struttura dei giacimenti ormai vuoti e grazie a nuove tecnologie il tutto sarà realizzabile a costi relativamente contenuti. La principale difficoltà che qualsiasi metodo per catturare e riutilizzare la Co2 deve affrontare è il fatto che la molecola di anidride carbonica è la più stabile fra i composti del carbonio, per cui scinderne i legami o legarla a qualsiasi altra sostanza costa sempre molta energia. Per riuscirci si sono provate varie strade e ad oggi non esiste un’unica soluzione per sciogliere questo vincolo dettato dalla termodinamica, ma la ricerca studia percorsi di reazione che richiedano il minor possibile consumo di energia. Lì Eni ha scommesso sui “liquidi ionici”: si tratta di una tecnologia che permette di intercettare la Co2 dall’atmosfera, ma con emissioni e consumi energetici più bassi rispetto ad altri metodi finora conosciuti. E una volta catturata diventa semplice pomparla dai sedimenti dove un tempo c’erano gli idrocarburi gassosi.

Bisogna ridurre anche il metano

Una valutazione globale dell’uso del metano pubblicata dalla Cccac (Climate and Clean Air Coalition) e dalll’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) mostra che le emissioni di metano causate dall’uomo possono essere ridotte fino al 45 per cento in questo decennio. E non sarebbe poca cosa perché ridurrebbero di quasi 0,3° C il riscaldamento globale da qui al 2045. Ma poiché il metano non è solo un gas che aumenta l’effetto serra, ma è anche un elemento primario nella formazione “dell’ozono troposferico” (l’ozono che fa male alla salute) e un pericoloso inquinante atmosferico, una tale riduzione impedirebbe la morte prematura di 260mila persone e l’ospedalizzazione di altrettante 775mila per problemi d’asma. Sottolinea Inger Andersen, direttore esecutivo dell’Unep: «Il taglio del metano è la leva più potente che abbiamo per rallentare il cambiamento climatico nei prossimi 25 anni e aiuterebbe gli sforzi che si fanno per ridurre le emissioni di anidride carbonica. I vantaggi per la società, le economie e l’ambiente sono numerosi e superano di gran lunga i costi».

La necessità di agire è urgente, dice la ricerca dell’Unep. Le emissioni di metano causate dall’uomo stanno aumentando più velocemente che in qualsiasi altro momento dall’inizio del rilevamento in atmosfera, iniziato negli anni Ottanta. Tra l’altro va sottolineato che nonostante un rallentamento nelle emissioni di anidride carbonica registrato nel 2020 a causa della pandemia da Covid-19 la quantità di metano nell’atmosfera ha raggiunto livelli record (secondo dati recentemente rilasciati dalla United States National Oceanic and Atmospheric Administration). Questa è una grossa preoccupazione, perché il metano è un gas serra estremamente potente, responsabile di circa il 30 per cento del riscaldamento sin dai tempi preindustriali.

A differenza della Co2 che rimane nell’atmosfera per centinaia di anni, per fortuna il metano inizia a degradarsi rapidamente: una molecola rilasciata oggi in atmosfera viene degradata nell’arco di pochi decenni. Ciò significa che la riduzione delle emissioni di metano fatta ai giorni nostri può ridurre rapidamente il tasso di riscaldamento a breve termine. Il rapporto rileva che la maggior parte delle emissioni di metano causate dall’uomo proviene da tre settori: combustibili fossili, rifiuti e agricoltura. La valutazione identifica anche le specifiche misure da prendere per ridurre il metano.

Sono strumenti già disponibili e che possono ridurre le emissioni del 30 per cento entro il 2030. C’è poi un ulteriore elemento incoraggiante. Circa il 60 per cento di queste misure è a basso costo e il 50 per cento di esse ha costi negativi, il che significa che le aziende guadagnano se agiscono. Il maggior potenziale di costi negativi è nell’industria petrolifera e del gas, dove la prevenzione delle perdite e la cattura del metano si aggiungono alle entrate invece di rilasciare il gas nell’atmosfera. Ma le misure mirate da sole non bastano. Misure aggiuntive che non prendono di mira specificamente il metano, come il passaggio alle energie rinnovabili, l’efficienza energetica residenziale e commerciale e una riduzione della perdita e degli sprechi alimentari, possono ridurre le emissioni di metano di un ulteriore 15 per cento entro il 2030.

A Chernobyl

Sono trascorsi 35 anni da quando il 26 aprile del 1986 esplose la centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina, eppure la situazione non è ancora rientrata completamente. All’interno del reattore infatti, si stanno ancora verificando reazioni di fissione dell’uranio che causano emissioni di radiazioni. Neil Hyatt, un chimico di materiali nucleari all’Università di Sheffield, ha paragonato la situazione a un barbecue con delle brace: basta poco perché le fiamme riprendano ad ardere. Il problema non è di secondo ordine, tant’è che un folto gruppo di scienziati e tecnici ucraini stanno cercando di capire se le reazioni nucleari in atto si spegneranno da sole o se, come sembra più probabile, saranno necessari interventi straordinari per evitare altri gravi incidenti.

Anatolii Doroshenko dell’Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari (Ispnpp) a Kiev, in Ucraina, ha spiegato a Science: «I sistemi di controllo presenti all’interno della centrale, in una stanza inaccessibile, hanno messo in luce un crescente numero di neutroni. È un segnale che indica che il fenomeno di fissione nucleare sta continuando». Per chi non ricordasse come funziona una centrale nucleare a fissione va detto che i neutroni sono le particelle che, entrando in un nucleo di uranio, li “spaccano” in nuclei più piccoli facendo uscire radiazioni e altri neutroni, che continuano la reazione a catena. «Il futuro è molto incerto – continua Doroshenko – e non possiamo escludere la possibilità di una nuova esplosione». Dalla parte degli scienziati c’è il fatto che il numero di neutroni sembra aumentare lentamente, il che fa pensare che ci potranno essere ancora diversi mesi, se non qualche anno, per poter intervenire e soffocare la minaccia. Ma perché non si è ancora riusciti a “spegnere” del tutto quel che c’è all’interno del reattore numero 4? Semplicemente perché quando avvenne l’esplosione le barre di combustibile di uranio, il loro rivestimento di zirconio e le barre di controllo in grafite vennero ricoperte da sabbia nel tentativo di estinguere l’incendio, ma il tutto si fuse in una specie di lava. Questa fluì nelle stanze del seminterrato della sala del reattore e proprio come la lava di un vulcano si indurisce mentre si espande. La crosta che si formò mantenne attive le reazioni che avvengono al di sotto di essa. Il sarcofago di cemento e acciaio che venne costruito un anno dopo l’incidente per contenere i resti dell’Unità 4 non fu così ermetico da non permettere all’acqua piovana di penetrare nel reattore. L’effetto fu quello di aumentare la fissione dei nuclei di uranio (l’acqua infatti, rallenta i neutroni che fuoriescono dalla fissione dando a loro l’energia giusta per “spaccare“ altri atomi di uranio), tant’è che alcune volte, in presenza di pesanti piogge, il conteggio dei neutroni che guidano la fissione andava alle stelle. Dopo un acquazzone violentissimo nel giugno del 1990, uno scienziato di Chernobyl decise di rischiare la sua vita avventurandosi nella sala del reattore per spruzzare una soluzione di nitrato di gadolinio che assorbe i neutroni. Alcuni anni dopo vennero posti degli irrigatori della medesima sostanza sul tetto del rifugio, ma lo spray non riuscì ad entrare efficacemente in alcune stanze delle seminterrato dove è presente la “lava”. Quando nel 2016 il vecchio sarcofago venne ricoperto da un nuovo involucro (dal costo di 1,5 miliardi di euro), per impedire all’acqua piovana di entrare nella centrale, il conteggio dei neutroni nella maggior parte dell’area della centrale è rimasto stabile o ha iniziato a calare. Purtroppo però negli ultimi anni i neutroni hanno iniziato a risalire in alcune aree, al punto che nella stanza 305/2 (che contiene tonnellate di lava sepolta sotto i detriti), sono raddoppiati in quattro anni. Forse è proprio la crosta di quel materiale che, contenendo i neutroni al suo interno, li fa rimbalzare rendendoli più efficaci nella fissione dell’uranio. Al momento non si hanno mezzi per poter intervenire e gli scienziati stanno pensando di costruire un robot in grado di resistere alle intense radiazioni che possa entrare là dove c’è la lava solidificata, praticare dei fori al suo interno e inserire cilindri di boro che sarebbero in grado di assorbire i neutroni. Purtroppo però l’esperienza di precedenti robot fatti entrare nel sarcofago con altri compiti è quasi sempre fallita perché nessuno è riuscito a resistere alle intense radiazioni presenti. Nel frattempo si stanno individuando altre aree che potrebbero diventare potenzialmente pericolose. Qualunque rimedio escogitato dagli scienziati sarà di grande interesse per il Giappone, che sta affrontando le conseguenze del proprio disastro nucleare di 10 anni fa a Fukushima.

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