C’è una foresta sommersa nel Mediterraneo. Meno visibile delle analoghe sulle terraferma, ma egualmente importante. Importante perché capace di fissare il diossido di carbonio (la comune CO2), ma anche perché dà riparo, cibo e casa a decine di specie marine.

È la foresta, o meglio, la prateria di posidonia oceanica, una fanerogama endemica del mar Mediterraneo e presente lungo molte aree costiere italiane. Può formare praterie sui fondali sabbiosi, dalla superficie fino ai 40 metri di profondità. Un ecosistema unico nel suo genere ma che si stima, nell'ultimo mezzo secolo, abbia perso un 34 per cento delle sua superficie. Un vero caso di deforestazione che ha tutta una serie di effetti a cascata, come spesso capita in questi casi.

Basta guardare ai numeri: per ogni metro quadrato di posidonia che scompare, si perdono 15 metri quadrati di spiaggia, a causa dell’aumento del moto ondoso. Le piante infatti stabilizzano il fondale, e fissano i sedimenti, riducendo l’energia delle onde e delle correnti, soprattutto nel caso di mareggiate e tempeste. Lo stesso metro quadrato inoltre produce dai 10 ai 15 litri di ossigeno al giorno, mantenendo in equilibrio le condizioni chimico fisiche delle acque marine. Ma le praterie hanno anche un valore economico: si stima infatti che quel metro quadrato perso sia equivalente a un deficit economico che si aggira tra i 39 e gli 89mila euro l’anno (dati Seaforest Life).

Ancoraggi e pesca a strascico

Le attività umane in questo caso sono le maggiori responsabili del depauperamento delle praterie mediterranee. Dalla costruzione di porti turistici agli scarichi non depurati, passando per la pesca a strascico agli ancoraggi dei diportisti, tanto che secondo alcuni studi, i danni maggiori a queste piante marine sono causati dal trascinamento delle ancore e dallo sfregamento delle catene, che arano i fondali.

Nei giorni scorsi Greenpeace, insieme al dipartimento di Ingegneria dell’università di Pisa, hanno presentato un progetto per contrastare il fenomeno della pesca a strascico illegale nei fondali delle aree protette. Le reti che vengono trainate infatti lasciano solchi che hanno effetti significativi non solo sulla posidonia, ma anche sui fondali coralligeni e la fauna ittica.

In questo caso i ricercatori stanno utilizzando un drone subacqueo autonomo, chiamato Zeno, in grado di rilevare i segni lasciati dalle reti sui fondali, e quindi individuare se ci sono state attività illecite in aree protette. In una nota del dipartimento il docente di robotica Riccardo Costanzi, spiega che il robot lancia «segnali acustici diretti al fondale, per stabilire in modo preciso la conformazione e la presenza di solchi grazie all'analisi dell’eco riflessa». Inoltre, essendo dotato di telecamera «potremo unire le informazioni visive e quelle acustiche, e avere una mappatura precisa del fondale marino con profondità superiori a 50 metri, di solito molto difficili da monitorare». Un modo per unire ricerca e tecnologia con la protezione ambientale delle aree marine protette, che potrebbe avere importanti sviluppi futuri sia nel monitoraggio che nella segnalazione di illeciti.

I progetti di reimpianto

Oltre a fare da nursery a decine di specie, le praterie sono un deposito fondamentale di carbonio: nella parte inferiore della “foresta” si crea infatti una struttura denominata “matte”, costituita da resti intrecciati di radici, rizomi e sedimenti aggrovigliati. È all’interno di questa struttura che viene immagazzinato circa il 50 per cento del carbonio sepolto nei sedimenti marini.

Secondo il Wwf questo fitto tappeto potrebbe aver immagazzinato dall’11 al 42 per cento delle emissioni totali di CO2 dei paesi mediterranei dai tempi della rivoluzione industriale. Per ridurre l’erosione costiera e ripristinare questi habitat utili dunque al contrasto dei cambiamenti climatici, sono decine i progetti di reimpianto avviati su tutte le maggiori coste italiane, spesso finanziati anche da soggetti privati e no-profit.

Emblematico è certamente il reimpianto avvenuto al largo dell’isola del Giglio, dove è avvenuto il naufragio della Costa Concordia che è costato la vita a 32 persone: secondo l’Ispra, la nave ha riversato oltre 2mila tonnellate di olio combustibile, 1.351 metri cubi di acque grigie e nere, 41 metri cubi di oli lubrificanti, e molte altre sostanze tossiche, causando effetti devastanti anche per l’ecosistema marino.

A 10 anni di distanza dalla tragedia, gli interventi di reimpianto della posidonia e delle gorgonie marine iniziano però a vedere i frutti. Il ministero della Transizione ecologica ha infatti fatto sapere che le immagini del fondo sabbioso mostrano «i primordi di una nuova prateria» mentre sui costoni rocciosi interessati dall’incidente si notano «le gorgonie reimpiantate». Una speranza per il futuro.

Ma il trapianto non sempre dà i risultati sperati. E oggi lo sappiamo grazie a un lavoro di monitoraggio mai avvenuto nel Mediterraneo, il LifeSeposso conclusosi lo scorso marzo, che ha permesso di rilevare lo stato di salute di circa 30mila metri quadrati di praterie trapiantate negli ultimi anni in diverse località italiane. Oltre 50 immersioni e 500 ore di lavoro hanno fatto capire ai ricercatori che per il successo dei trapianti serve soprattutto tempo: almeno cinque anni per valutare se abbia raggiunto una condizione di stabilità e almeno dieci per sapere se la prateria ha sviluppato quella struttura che le permette di tornare in salute.

Quello del trapianto è un lavoro certosino, dove le giovani talee vengono prelevate dai siti in salute per essere poi trapiantati nelle aree ormai ritenute “morte”. Qui vengono ancorate al fondo tramite ancoraggi in bioplastica o cemento armato, e a quel punto si aspetta. Si aspetta che le giovani piantine radichino e che formino le “matte”, indice di salute della prateria. Ma le criticità restano comunque elevate: in alcuni monitoraggi, come quello al largo di Mondello, nonostante più della metà delle piante sia sopravvissuta, non mancano i danni agli impianti causati dalle attività umane come appunto l’ancoraggio e la pesca artigianale, nonostante l’area fosse interdetta all’ancoraggio e alla pesca fin dal 2015.

Il che ci mostra una volta in più quanto sia importante ritrovare un equilibrio tra il mare e le attività umane, ricreative o economiche che siano. E soprattutto che l’unica via per proteggere questo delicato ecosistema centrale per il benessere del Mediterraneo, sia istituire delle aree marine protette, in cui l’azione dell’uomo sia nulla o quantomeno ridotta.

© Riproduzione riservata