Il rompicapo del bonus al 110 per cento è l’esempio perfetto di quello che il governo di Mario Draghi sta affrontando in queste prime settimane con la “riscrittura” di NextGenerationEu. La transizione ecologica è la parte più ricca del piano di ripresa, visto che finora le toccavano in dote più di 68 miliardi di euro. Ma quasi la metà, 29 miliardi di euro, il finanziamento maggiore tra tutte le singole voci del programma pari a più del dieci per cento del totale, è dedicato non tanto alle filiere industriali dell’energia, quanto alla riconversione energetica dell’edilizia pubblica e privata. La parte privata, però, cioè il bonus che prevede un credito di imposta fino al 110 per cento per tutti, almeno fino al giugno del 2022, senza distinzioni di sorta di reddito, di prime o seconde abitazioni alla faccia della progressività, secondo gli ultimi dati non sta funzionando come ci si aspettava.

Se non venissero modificati i saldi interni alla missione della transizione energetica, questo renderebbe i progetti per l’edilizia pubblica ancora più importanti.

Non è un caso che proprio in questi giorni si levino da Confindustria ma anche da think tank come Nomisma ipotesi di investimento più pesanti sul fronte pubblico, fino a 34 miliardi. O che si discuta di sostituire i vertici dell’Agenzia del demanio con dirigenti che hanno partecipato alla stesura del piano Next Generation Eu come Alessandra Dal Verme, cognata del commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, seppure la faccenda possa presentare possibili profili di incompatibilità.

In generale il grande capitolo della transizione ecologica va rivisto e abbinato a obiettivi misurabili e a una strategia coerente. In teoria la missione del neo ministro Roberto Cingolani sarebbe inserire in una cornice industriale sensata, una infrastruttura energetica nazionale, quelli che finora sembrano più i desiderata di Eni, Enel o Snam.

Il caso del bonus edilizia dimostra che non è facile prevedere il raggiungimento degli obiettivi e che, se si vuole un intervento coerente, bisogna che la pubblica amministrazione funzioni: non sia più debole dei privati con cui si rapporta e allo stesso tempo sia capace di incentivarne il ruolo. Dalla stesura degli obiettivi intermedi e dal loro raggiungimento dipende l’esborso dei fondi. A livello generale, secondo Edo Ronchi, presidente della fondazione per lo Sviluppo sostenibile, il piano approvato dal Conte due era adeguato ai vecchi obiettivi europei di riduzione delle emissioni e non ai nuovi che prevedono la neutralità nel 2050. A questo punto una strada potrebbe essere accantonare parte dei progetti infrastrutturali che risultano già vecchi per liberare altre risorse per progetti che vanno in quella direzione.

Sul secondo capitolo più ricco, quello della digitalizzazione, la divisione dei compiti finora è abbastanza chiara: a Giancarlo Giorgetti va l’amministrazione del rapporto con le aziende, con più di 20 miliardi già destinati all’innovazione tecnologica del settore difesa dal passato governo, tra cybersecurity e aerospazio. Mentre il ministro della transizione digitale, Vittorio Colao, si occuperà soprattutto della strategia per l’innovazione. Giorgetti con il suo capo di gabinetto, Paolo Visca, conoscitore del diritto europeo che ha accompagnato anche Salvini vice premier, è pronto a spingere sulla riforma del codice degli appalti. Se la Lega otterrà il “modello Genova”, allora il rafforzamento dell’Anac ormai svuotata preannunciato dal premier sarà più che necessario. C’è poi da dettagliare chiaramente i tempi delle riforme: giustizia (nella prima versione del Recovery i decreti erano previsti già a giugno), fisco e subito gli ammortizzatori sociali. Ma il ritmo del piano di ripresa si capirà soprattutto martedì, quando Renato Brunetta spiegherà al parlamento le linee programmatiche del ministero della pubblica amministrazione.

 

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