Negli ultimi mesi si è discusso molto dell’andamento del mercato del lavoro italiano. L’elemento più eclatante è di certo l’insieme di dati fortemente positivi che provengono da tutte le fonti statistiche e amministrative. In Italia il numero degli occupati non è mai stato così alto e si sta avvicinando mese dopo mese ai 24 milioni.

Complice di questo è il forte aumento dell’occupazione femminile, anch’essa record, e di quella giovanile, soprattutto nella fascia 25-34 anni.

L’altra faccia dell’aumento degli occupati è la diminuzione degli inattivi, che trovano lavoro o che iniziano a cercarlo (diventando statisticamente disoccupati), e in particolare dei giovani Neet che sono diminuiti di quasi un milione negli ultimi 3 anni.

C’è poi la dimensione qualitativa, con gli occupati a tempo indeterminato cresciuti di oltre 800mila unità dal 2021 e il numero di quelli a termine in leggero calo rispetto ai picchi post-pandemia.

Senza proseguire in un elenco di numeri che potrebbe continuare, soprattutto se andassimo a comparare l’Italia con le performance complessive ben migliori degli altri paesi europei, possiamo senza dubbio dire che qualcosa sta cambiando nel mercato del lavoro. Non è chiaro però ancora perché e quindi quali possano essere le prospettive future.

Di certo abbiamo una popolazione che invecchia e allo stesso tempo diminuisce e questo, insieme all’allungamento della permanenza nel mercato del lavoro causata dagli interventi sulle pensioni, porta a una crescita degli occupati a tempo indeterminato all’85% del totale dei lavoratori dipendenti.

Più dimissioni

Se prendiamo poi anche i dati amministrativi sull’andamento dei contratti a termine vediamo come negli ultimi anni il numero delle trasformazioni in contratti a tempo indeterminato sia cresciuto molto, segno che c’è una tendenza maggiore da parte delle imprese alla stabilizzazione, molto probabilmente legata anche alla difficoltà di trovare persone. Infatti nonostante la crescita occupazionale continuano ad essere stabili i posti vacanti, segno che le imprese continuano a cercare. E parallelamente anche il numero delle dimissioni, che era cresciuto molto nel periodo post-pandemico, continua ad aumentare, sebbene a ritmi minori, segno che non si è trattato di un fenomeno una tantum. Ed è forse questo uno degli elementi che dovrebbe far riflettere di più.

Il fatto che oggi vi sia un legame molto più sottile con il proprio posto di lavoro spiega come mai la mobilità nel mercato del lavoro, storicamente bassa in Italia, oggi sia crescente almeno all’interno di medesime aree geografiche. Sembra infatti che i più giovani abbiano ben interiorizzato una certa narrativa che, negli ultimi decenni, ha raccontato a loro che è vincente e performante nel mercato del lavoro chi cambia spesso occupazione, facendo un uso estrattivo delle imprese dal punto di vista delle competenze che poteva acquisire, per poi monetizzarle passando ad altre, in una spirale ascendente che mette al centro unicamente il risultato dell’individuo.

Il disallineamento tra una offerta di lavoro calante e una domanda crescente in alcuni ambiti ha fatto esplodere questa dinamica, aumentando le transizioni occupazionali tra posti di lavoro. Un fenomeno che destabilizza le imprese abituate a promuovere la flessibilità finché era governata da loro, attraverso l’utilizzo anche per figure qualificate di contratti brevi e instabili. Ora avviene il contrario, con giovani (e non solo giovani) ben poco legati al posto di lavoro, con interessi extra-lavorativi crescenti e che sono quindi ben disposti a cambiare continuamente sia per nuove sfide professionali sia, soprattutto, per maggiori salari, benefit e flessibilità.

L’altro lato della medaglia

C’è però un altro lato della medaglia, quello di chi non è in grado di approfittare di queste nuove dinamiche del mercato del lavoro. Si tratta delle persone più fragili, con titoli di studio più bassi, che restano intrappolate nel reiterarsi di contratti brevi e instabili, in un numero di ore lavorate non sufficienti a sostenersi, nella costrizione a vivere di espedienti all’interno del vasto mondo del lavoro irregolare che ancora caratterizza il nostro paese.

Il primo maggio dello scorso anno è stata annunciata l’abolizione del reddito di cittadinanza e, per gli occupabili, si introduceva il Supporto per la formazione e il lavoro partendo dal presupposto che il non lavoro è sempre e solo una scelta individuale e che sarebbe stato sufficiente eliminare i sussidi per cambiare tutto.

Un anno dopo è chiaro che non è così, con gli iscritti al nuovo sussidio che faticano a trovare lavoro e con un numero di iscrizioni (da quanto è dato sapere, complice un monitoraggio ad oggi inesistente) molto basso rispetto al potenziale dei beneficiari. Di tutto questo si parla troppo poco.

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