Pubblichiamo un estratto del libro di Attilio Bolzoni “Controvento. Racconti di frontiera” edito da Zolfo editore (2023). Le interviste video sono disponibili a questa pagina.

È una domenica ventosa sotto Montepellegrino. Allo stadio della Favorita gli spettatori sono undicimila, il Palermo ospita l’Ascoli, diciassettesima partita del campionato di calcio di Serie B. Lo striscione, lunghissimo, il 22 dicembre del 2022 resta esposto alla curva sud esattamente per tre minuti. Avviso da brivido caldo: «Uniti contro il 41 bis, Berlusconi dimentica la Sicilia».

I poliziotti si arrampicano sugli spalti, c’è qualche tafferuglio, un agente è ferito all’occhio destro, tre tifosi fermati, in serata sfilano in caserma quarantuno ragazzi sospettati di avere preso parte all’aggressione. Li rilasciano la mattina dopo. La dichiarazione più banale, e inutilmente fuorviante, è quella del questore Francesco Cirillo: «Si tratta di un episodio tutto da chiarire, cercheremo di capire chi ha voluto mandare quel segnale e perché».

Chiarire? Capire? Da chiarire o da capire c’è niente, è già tutto chiarissimo. La mafia di Palermo chiede conto e ragione al presidente del Consiglio in carica delle promesse non mantenute. E non è la prima volta. Da molti mesi c’è una rabbia che sale, un risentimento cupo che il tam-tam carcerario porta minacciosamente all’esterno: «Iddu pensa solo a Iddu». Lui pensa solo a sé stesso.

E lui è sempre lui: Silvio Berlusconi. A luglio di quello stesso 2022 Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, durante un’udienza della Corte di Assise di Trapani, in video collegamento dal carcere dell’Aquila legge un comunicato: «A nome di tutti i detenuti sottoposti all’articolo 41 bis, stanchi di essere strumentalizzati e vessati… aspettiamo precisi segnali».

Sono passati dieci anni dalle stragi siciliane, tutti i grandi boss di Cosa Nostra – escluso Bernardo Provenzano, ancora ben protetto – sono stati catturati e marciscono nelle segrete dell’Asinara, di Sollicciano, dei Pagliarelli di Palermo. Qualcuno, come Pietro Aglieri e Carlo Greco, provano a trattare con lo Stato proponendo al procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna una «dissociazione morbida» in cambio di sconti di pena. La mossa è astuta ma non riesce.

Dal 1992 in Sicilia non si spara un solo colpo, dopo l’inferno di Capaci e di via D’Amelio c’è un silenzio irreale. I padrini, dopo le bombe, garantiscono al popolo mafioso che «la politica avrebbe cambiato le cose». È passato del tempo e non accade nulla. Gli avvocati che difendevano i boss sono stati eletti alla Camera e al Senato ma le loro proposte di legge per attenuare gli effetti dell’ergastolo o del carcere duro non «camminano», vanno avanti solo quelle sul falso in bilancio e sul legittimo sospetto. «Iddu pensa solo a Iddu».

Il Sisde, il servizio di sicurezza interna, apprende «da attendibili fonti d’ambiente» che Cosa Nostra è pronta a scatenarsi un’altra volta. In una nota inviata a Palazzo Chigi avverte: «Informazioni inducono a ritenere altamente probabile che, a breve e a medio termine, Cosa Nostra torni a colpire selettivamente e simbolicamente. L’obiettivo potrebbe quindi essere una personalità della politica che, indipendentemente dal suo effettivo coinvolgimento in affari di mafia, venga comunque percepito come compromesso con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica».

La nota continua, più precisa: «Questa linea di ragionamento induce a ritenere che l’onorevole Marcello Dell’Utri possa essere percepito da Cosa Nostra come un bersaglio ideale. La sua esposizione mediatica dai contorni negativi e la sua vicinanza al presidente del Consiglio potrebbero essere ritenute dalla mafia utili per mandare un messaggio di forte impatto criminale e destabilizzante. Analogamente destabilizzante, in questa ottica, potrebbe ritenersi un attentato ai danni dell’onorevole Previti, il cui profilo pubblico è molto simile a quello dell’onorevole Dell’Utri».

Due obiettivi: Marcello Dell’Utri e Cesare Previti. Un po’ come nei primi anni Novanta. Far fuori tutti coloro che non avevano assicurato «il buon esito del maxiprocesso», i traditori: l’onorevole Salvo Lima e il potente esattore mafioso Ignazio Salvo. Non c’è mai niente di inedito nelle logiche mafiose, è sempre già tutto scritto.

È il secondo tempo dei rapporti fra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Non c’è più lo «stalliere» di Arcore, c’è sempre Marcello Dell’Utri, non ci sono più i Bontate e i Grado e Tanino Cinà usciti definitivamente di scena con la guerra tra le famiglie ma adesso ci sono gli zombie del 41 bis. E soprattutto ci sono i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i veri custodi dei segreti delle stragi del 1992 e del 1993.

Le cose non andranno come speravano i boss detenuti e neanche come presupponevano gli agenti dei servizi di sicurezza interna, le cose in Italia si «aggiustano» sempre. È ancora libero, ricercato dal 1963, il corleonese Bernardo Provenzano che sta traghettando Cosa Nostra fuori dalla strategia stragista riportandola nel solco della tradizione. Verrà catturato, dalla squadra del superpoliziotto Renato Cortese, solo quattro anni dopo quello striscione esibito allo stadio della Favorita. L’hanno preso l’11 aprile del 2006 a qualche centinaio di metri dalla sua casa di Corleone.

Latitante, dal 1993, è anche Matteo Messina Denaro, un altro che ha il  sapere delle bombe mafiose. Per disvelare la trama di questa temeraria relazione fra la coppia Berlusconi-Dell’Utri e il crimine siciliano bisogna però fare un salto indietro, tornare agli anni degli attentati. E a quando Sua Emittenza «scende in campo».

Tutta materia dell’ultima inchiesta sulle stragi, quella della procura della Repubblica di Firenze che negli ultimi mesi ha intensificato verifiche e riscontri per decifrare come certi avvenimenti si sono incrociati nella settimana fra il 21 e il 28 gennaio del 1994. Una settimana decisiva. Per Berlusconi. Per Dell’Utri. Per i Graviano.

Cominciano dalla fine di quei sette giorni: dal 27 gennaio. Quella sera, Giuseppe e Filippo Graviano, mafiosi delle stragi legatissimi a Totò Riina e a Matteo Messina Denaro, vengono arrestati a Milano al ristorante Gigi il Cacciatore. Cadono in una trappola, qualcuno non li vuole più fra i piedi. C’è Giuseppe D’Agostino, un palermitano di Brancaccio (il quartiere dove regnano da tre generazioni i Graviano), che sta accompagnando suo figlio Gaetano – un talento calcistico che poi giocherà anche in Nazionale – a una prova per i «pulcini» del Milan. È una soffiata quella che porta i carabinieri al ristorante milanese. Vanno a colpo sicuro.

Dichiarerà sibillino qualche anno dopo Giuseppe Graviano: «Se i carabinieri diranno la verità su come sono andati i fatti, se anche D’Agostino dirà chi li ha invitati a fare il provino al Milan… voi scoprirete chi sono i veri mandanti». Chi ha interesse, e proprio in quel momento, a far scivolare nella rete i Graviano? È questo uno dei punti centrali intorno ai quali la procura di Firenze ancora oggi sta indagando sulle stragi: vuole acquisire qualche elemento in più su quella cattura.

Perché, nei giorni precedenti al 27 gennaio, accade altro, molto altro. Ma ne verremo a conoscenze in seguito. Quando si pente Gaspare Spatuzza, il mafioso che carica di esplosivo la Fiat 126 di via D’Amelio, l’attentato contro Borsellino. E quando, sfiniti dalla lunga carcerazione e sempre più furiosi, iniziano a mandare i loro inquietanti segnali i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano. Sempre contro Silvio Berlusconi.


“Controvento. Racconti di frontiera” di Attilio Bolzoni, edito da Zolfo Editore (2023, pp. 624). Attilio Bolzoni, giornalista, ha iniziato la sua attività al quotidiano «L’Ora» di Palermo. Per quarant’anni inviato speciale a «Repubblica», oggi scrive per «Domani».

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