Salvatore Buzzi apre un pub a Roma, ma la notizia non è la sua nuova vita imprenditoriale, ma la scelta di nominare panini, insalate e vivande con i soprannomi dei boss, resi celebri dalle fiction che ne hanno esaltato le gesta riducendo lo stato a inutile comparsa.

«Bufalo», «Er terribile», «Suburra», «Gomorra», «Il Negro» e tanti altri. «In questo locale pagano tutti: amici, parenti e conoscenti, i pubblici ministeri pagano doppio e i giudici triplo.

Hanno diritto allo sconto gli ex soci e i dipendenti del gruppo 29 giugno», dice l’ex presidente della cooperativa 29 giugno che distribuiva mazzette e corrompeva funzionari e politici in combutta con Massimo Carminati, che incrocia la storia della banda della Magliana.

L’apertura del Buzzi’s burger, la carne di diversa pezzatura (da 100 a 250 grammi) associata ai nomi dei malavitosi romani desta curiosità, ma ha un rischio quello di cancellare nefandezze e orrori commessi dai criminali partendo da un assunto che in fondo a Roma la mafia non esiste o comunque non esiste quella dei Buzzi e dei Carminati.

La sentenza della corte di Cassazione, le motivazioni della suprema corte hanno annullato la condanna per associazione mafiosa, certo, ma  non sbiancano le macchie, non ripuliscono soldi e bustarelle, non coprono anni di corruzione elevata a sistema con l’aula Giulio Cesare asservita ai voleri della premiata ditta Buzzi-Carminati.

 «Questa mattina è arrivata anche l’ultima autorizzazione e oggi alle 17 apriamo il locale. Sono contento. Perfino Osho mi ha dedicato una vignetta strepitosa», dice Buzzi all’agenzia AdnKronos assicurando tutti che non teme critiche «dopo quello che mi è accaduto come posso? E poi le difficoltà mi esaltano».

Salvatore Buzzi non è una vittima, ma un corruttore in attesa della rimodulazione della pena da parte della corte d’appello contro la quale ha pronto ricorso in cassazione. «Le contestazioni bisogna saperle fare e farle reggere in giudizio. Il 416 bis, l’associazione mafiosa, è uno strumento delicato ma quando diventa uno strumento di propaganda in mano agli inquirenti, il contrappeso è la beatificazione dell’assolto», dice Otello Lupacchini, magistrato in pensione e nemico storico della banda della Magliana.

Per l’ex pubblico ministero l’accusa di mafia era roboante e l’assoluzione trasforma in martiri gli imputati. 

L’associazione a delinquere

Alla fine del processo, nato dall’indagine mondo di mezzo, la corte di cassazione ha stabilito che non c’era mafia, ma due associazioni a delinquere semplici finalizzate a una sequela innumerevole di reati contro la pubblica amministrazione.

Non c’è omertà, non c’è intimidazione, dicono i giudici della suprema corte, ma «una grave compromissione della pubblica funzione conseguente a una scelta libera e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari, un sistema inquinato e spartitorio nella gestione degli appalti e nella nullificazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di indebita locupletazione».

Una collusione generalizzata, diffusa e sistemica. Ma la cancellazione dell’associazione mafiosa ha spazzato via anche il resto, come se un sistema collusivo e corruttivo fosse accettabile, permesso, consentito.

L’attenzione ai fenomeni corruttivi, endemico virus nel sistema Italia, è progressivamente calata, basti pensare che nella riforma della giustizia voluta dalla ministra Marta Cartabia tra i reati esclusi dalla ghigliottina durante il giudizio di secondo grado non figura la corruzione.

Non c’è solo questo atteggiamento bonario nei confronti di un sistema a delinquere fondato sulle mazzette, ma anche la leggerezza nell’evocare con i soprannomi storie di criminali che hanno compromesso la democrazia nella capitale del nostro paese.

Un panino sarà dedicato al “Nero” Franco Giuseppucci, un altro a “Dandy” Enrico De Pedis, ma anche al “Bufalo” Marcello Colafigli. Tutti boss della banda della Magliana. La banda è stata un’organizzazione criminale che ha iniziato la sua ascesa criminale con un rapimento e omicidio di un innocente, che ha sterminato i rivali inondando di cocaina ed eroina Roma. 

La banda, che ha controllato la capitale dagli anni settanta agli anni novanta, è stata considerata in larga parte un’associazione a delinquere semplice, non c’era l’omertà estrinseca, quella che mette paura, intimidisce anche persone estranee ai contesti criminali. Eppure chi parlava, denunciava moriva ammazzato.

È la sorte toccata a Sergio Carozzi, commerciante che aveva osato ribellarsi, ucciso dagli uomini della banda guidati da Marcello Colafigli, detto “er Bufalo”. « La banda è stata un’organizzazione criminale signoreggiata da poteri pubblici e comunque occulti, deviati rispetto all’ordine costituzionale», dice Lupacchini. 

Quello che è successo con quel potere criminale è un progressivo svuotamento di senso e responsabilità. «Prima la banda della Magliana non esisteva, quando successivamente ne hanno riconosciuto l’esistenza l’hanno svuotata del carattere criminale per trasformarla in folklore e successo editoriale», conclude Lupacchini.

 In fondo, come stabilito dai giudici, molti di quei capi non furono giudicati mafiosi. E allora buon appetito al Buzzi’s Burger.

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