Uno studio dell’International Association for Relationship Research stima che ci vogliano dalle quaranta alle sessanta ore trascorse insieme, nelle prime sei settimane dall’incontro, per trasformare un conoscente in un amico occasionale e dalle ottanta alle cento ore per trasformarlo in qualcosa di più.

Lo studio prosegue con una previsione piuttosto ragionevole, ossia che le amicizie si creino in posti dove noi tutti passiamo più tempo: lavoro, scuola e attività varie. Occhei. Il mercoledì alle 18:00 io vado in terapia.

Ci vado da un milione di anni, da quando, per la primissima volta nella mia vita, non ho saputo rispondere a una semplice domanda. Avevo quindici anni e, senza nessuna avvisaglia, un giorno mi sono seduta per terra, su un marciapiede, e ho detto a una mia amica: «Mi sento male!». E lei mi ha domandato: «Che hai fatto?».

Ecco, io non ho saputo rispondere, se come risposta non si tiene per buona un gesto circolare fatto con la mano sul petto, a indicare una cosa che si era aperta, proprio là. Allora mi sono coperta il viso con le mani e mi sono messa a piangere. Era una giornata un po’ calda dei primi anni Duemila. Ero sulla terrazza del Pincio, a Villa Borghese, ero andata a vedere TRL, un programma di MTV di quegli anni e, mentre io piegavo le gambe e mi reggevo la testa, i Blue cantavano forse I can’t breathe easy / can’t sleep at night […] / No, I can’t breathe easy, breathe easy – “Non riesco a respirare bene, non riesco a dormire di notte […]. No, non riesco a respirare bene, respirare bene”.

La maledizione dei Blue

Quel ritornello e quella condizione avrebbero accompagnato quasi ogni giorno della mia vita di lì a poco: era la maledizione dei Blue. Ho scritto “forse” perché io non ricordo di averli sentiti cantare, alla fine, ma sicuramente lo avranno fatto perché, anche se non pareva, purtroppo era solo la mia vita a essersi fermata in quel momento. E mentre tutto continuava a muoversi attorno a me, io mi sentivo morire.

Poi, però, la morte non è arrivata, lo so: non solo perché ora sto scrivendo questo libro, ma anche perché quel giorno ho sperimentato il primo passaggio della mia vita al Pronto Soccorso. Primo di una lunghissima serie, ciascuno dei quali sempre contraddistinto da un variegato ventaglio di sintomi: «Ho un infarto», «Ho un ictus», «Sto impazzendo» – quando stavo un po’ meglio –, «Ho un tumore al cervello» – frase tipica dei momenti in cui proprio non ne potevo più. Alla fine, quel giorno, sono tornata a casa con la seguente diagnosi: «Te sei un po’ agitata, signorina». AGITATA? UN PO’?

Po’ è la forma tronca di “poco”, sbaglio? Chi è che si permette di minimizzare il dramma più straziante e totalizzante della mia vita? Fatemi vedere le tabelle di riferimento: chi è che le ha decise, cosa poteva succedermi invece, se l’intensità della mia agitazione fosse stata “abbastanza” o “tanto”? La verità è che in quella giornata avevo avuto il mio primo attacco di panico. Ma perché, allora, questo capitolo è dedicato all’angoscia e non al panico? Prima di tutto perché io sto parlando di un’amicizia e non di un impedimento.

E poi perché quel giorno, a me, quella parola tronca aveva insinuato da qualche parte, nel corpo, il fondamento dell’angoscia, l’incertezza: infinite possibilità di malessere e di scenari catastrofici che io, prima di allora, non avevo considerato; ma anche un terribile e dolcissimo modo per crescere. In seguito a questi eventi, una porta si era aperta – e si apriva solo da fuori (quella dell’angoscia) – e indietro non riuscivo a tornare; mentre un’altra si era chiusa, e si apriva solo da dentro (quella di casa mia), il luogo dove ho passato la maggior parte del tempo di bambina/adolescente in compagnia di quest’amica ingombrante, che mi teneva occupati i pensieri, i gesti e scandiva i miei ritmi e le mie esigenze.

Che si chiamasse angoscia l’ho capito nel tempo, scoprendo che la differenza con la paura sta proprio nell’oggetto del sentire: l’angoscia non ne ha e non smette di esistere anche se si riesce a evitare un “pericolo” materiale; la paura ha un oggetto definito, un destinatario, del quale siamo più o meno consapevoli. Se eliminate il suo oggetto, la paura a volte scompare.

L’angoscia non scompare

Me ne sono accorta perché, quando mi svegliavo di soprassalto, la mattina, in casa mia, l’allarme non suonava per i ladri, ma per una folata d’aria. Insomma, io ora il mercoledì alle 18:00 vado in terapia, ormai quasi da vent’anni, un po’ a singhiozzi, ma ci vado.

E no, non trovo chiuso, se a questo punto del racconto qualcuno di voi se lo sta domandando; trovo aperto. Sappiate, inoltre, che l’assunto su cui si basa la domanda che vi state ponendo è sbagliato: alla fine di ogni percorso non c’è necessariamente una guarigione.

Lo psicoterapeuta per me è come l’avvocato, e dall’avvocato non si va solo per essere assolti, ma anche per cercare di ottenere una giusta pena, commisurata al reato. Dallo psicoterapeuta non si va per “guarire”, ma per garantire a sé stessi la capacità di fare qualcosa con quello che si ha.

Una delle prime frasi della mia terapeuta di allora – anche se forse banalizzo un po’ – fu: «L’angoscia è un’amica, una delle risorse più grandi che hai». Ed è vero. L’angoscia, come dice la mia amica Daniela, è l’amica deputata a spararvi in petto quando nessun altro lo farebbe, ad accollarsi il momento spiacevole di comunicarvi che qualcosa non va, quella che si prende la briga di avvertirvi che il vostro fidanzato si stava a bacia’ con una al mare.

Vi spara, non vi fa una carezza, vi buca da parte a parte, ma vi offre la possibilità di percepirvi, con dolore, e di guardare la realtà da vicino. Stando allo studio che ho citato all’inizio, sono circa 175.200 le ore che ho trascorso con la mia più grande amica. L’angoscia è diventata una presenza irrinunciabile. E ora sono anche fuori tempo massimo per eliminarla, ci siamo fatte il mezzo cuore d’oro.


La ricetta

Questo resta pur sempre un libro di ricette, lo so, ma la verità è che l’angoscia, a volte, mi ha tolto l’appetito e quindi, come vi anticipavo, non ho nessuna ricetta da darvi, tantomeno per stare meglio, se non quella per magnasse le mani, che un po’ placa, ma non risolve. Perciò la mattina, quando con i vetri sotto ai piedi vi dirigete in cucina per farvi un caffè e vi manca sempre un pezzo di pensiero per farne uno completo, il ciambellone della nonna non c’è e neanche la mamma che vi ha lasciato la caffettiera carica con un biglietto, bevetevi pure solo un caffè, e la colazione immaginatevela. Il menu per una colazione immaginaria prevede:

Ciambellone di tutti

Allora, ve l’ho detto, il ciambellone non è di nonna, è di tutti. Lo so che vi faccio del male, ma credetemi, le differenze fra questo e quello di nonna sono due: la prima è che ci mettiamo la ricotta e non l’olio di oliva, che lo fa sembrare una bruschetta cresciuta; la seconda è che lo dobbiamo fare noi. Quindi ve ne do conferma ufficiale, quello di nonna ha solo un magico tocco in più: ve lo fa qualcuno. E quando uno si deve solo sedere e mangiare, anche le cavallette sembrano aragoste.

Cosa vi serve

4 uova

200 g di zucchero

350 g di farina 00

16 g di lievito chimico per dolci

150 g di burro fuso a temperatura ambiente

230 g di ricotta di mucca

Semi di una bacca di vaniglia (nonna ci mette la scorza di un limone, not in my name)

Un pizzico di sale

Procedimento

Se riusciste a partire con le uova a temperatura ambiente, sarebbe meglio. Se non ci riuscite, rivalutate un attimo la vostra capacità di organizzazione e tornate con delle cavolo di uova a temperatura ambiente. Con una frusta elettrica montate le uova, lo zucchero, il sale e l’aroma scelto – la vaniglia, quindi. Mentre aspettate, vi setacciate la ricotta con un colino a maglia fine.

Se non lo fate, non succede assolutamente niente, ma io devo dire le cose giuste. Quando la montata raggiunge un colore chiaro e una consistenza spumosa, inserite delicatamente la ricotta e il burro fuso a temperatura ambiente. Una volta che il composto si sarà bevuto tutto questo mix di mucca, incorporate la farina setacciata con il lievito, possibilmente in due/tre step.

Preriscaldate il forno a 180 gradi, in modalità statico. Imburrate e infarinate uno stampo da ciambellone, con un diametro di 22/24 cm, e versateci il composto – vi prego, non vi fate dire tutte le ovvietà che la carta costa e non la voglio sprecare. Cuocete per circa 35-40 minuti.

Il forno vostro non lo conosco, ma non siate ebeti: se fate la prova dello stecchino e questo esce ancora sporco o umido, continuate la cottura per 4-5 minuti. Sfornate, spolverate con zucchero a velo, se vi va, e mangiate. Questo, volendo, vi dura anche per 3-4 colazioni immaginarie, se conservato ben coperto, a temperatura ambiente.


Quello che avete letto è un estratto di Cucinava sempre di Sofia Fabiani, edito da Mondadori (224 pp., euro 17,95 euro)

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