All’indomani della proclamazione della classifica The World’s 50 Best Restaurants 2022 si è diffuso un moto tutto italiano di soddisfazione e orgoglio. Nei primi 50 posti c’erano ben sei ristoranti italiani con i loro chef: Enrico Crippa, Niko Romito, Mauro Uliassi, Massimiliano Alajmo, Enrico Camanini, Norbert Niederkofler. Si noterà che oltre alla fama e alla professione c’è un fattore che li accomuna: sono tutti uomini.

Lo studio

Immagine AP

Dall’idea di analizzare la composizione di genere degli staff delle cucine è partita una ricerca coordinata da Chef’s Pencil, rivista internazionale di cibo fondata nel 2009. Il report, condotto a maggio 2022 e pubblicato a luglio, ha analizzato la situazione dei ristoranti premiati dalla guida Michelin e dalla classifica 50 Best.

Su un’eventuale discrepanza cronologica di quest’ultima, Chef’s Pencil ha detto a Domani: «Anche se potrebbero esserci stati dei cambiamenti, non ci aspettiamo che siano stati significativi”. I dati che abbiamo osservato confermano l’ipotesi: nel 2021 nella classifica c’erano otto ristoranti con donne chef su cento. Nel 2022 sono sette. Insider nel 2019 ne citava undici. Le cose non stanno migliorando. 

Chef’s Pencil ha esaminato lo staff di 2.286 ristoranti stellati in 16 paesi, nonché i cento migliori ristoranti secondo 50 Best. Molti nomi si equivalgono, visto che tre quarti dei cento migliori ristoranti del mondo sono anche stellati Michelin. Per i ristoranti gestiti da un team di due o tre chef, sono stati inclusi tutti i componenti del team esecutivo. Nel 2022 su sette ristoranti guidati da chef donne, due hanno anche chef uomini.

I risultati del report

Student stepping through phone becoming a chef (Ikon Images via AP Images)

Stando agli esiti dell’indagine, solo il 6,04 per cento dei 2.286 ristoranti stellati Michelin è guidato da donne e il 6,73 per cento dei migliori cento ristoranti secondo 50 Best ha una chef donna. Ma le medie nascondono differenze sorprendenti tra i vari paesi. Non ci sono donne chef a capo di ristoranti Michelin a Singapore, Irlanda, Svezia o Danimarca.

Seguono i Paesi Bassi (un per cento), con una chef donna e 111 uomini, il Belgio (tre per cento) con quattro chef donne e 124 uomini, la Svezia (quattro per cento) con una chef donna e 22 chef uomini, la Germania (quattro per cento) con 13 donne e 324 uomini, la Francia (cinque per cento) con 30 donne e 600 uomini.

Sopra la media Brasile e Stati Uniti (sette per cento), Regno Unito e Norvegia (otto per cento), Corea del Sud (nove per cento). Ma a guidare la classifica sono la Spagna – con la più alta percentuale di donne chef in primo piano (11 per cento) - e l’Italia (10 per cento).

Il report evidenzia che tra Norvegia, Svezia e Danimarca, paesi ritenuti particolarmente attenti alla parità di genere, c'è una sola chef donna a capo di un ristorante stellato, a fronte di 63 ristoranti gestiti da uomini. È Heidi Bjerkan del ristorante Credo.

La situazione in Italia

Guardando la media, l’Italia mostra percentuali meno sconfortanti degli altri classificati. Nel nostro paese il 10 per cento dei ristoranti stellati è guidato da chef donne: sono 39 rispetto a 352 colleghi maschi, ma la maggior parte si ferma a una stella Michelin. Nel caso della 50 Best, tutti i ristoranti italiani presenti sono guidati da chef uomini.

La situazione si allarga leggermente nella lista dei 50 Best Discovery, una sezione a numero aperto con 70 referenze italiane tra bar, ristoranti e trattorie in cui compaiono molte più chef. C’è da gioire ma non da essere contenti, si direbbe.

Dopo l’uscita dell’ultima guida nell’autunno del 2021 (la prossima verrà presentata a novembre 2022), i media italiani avevano criticato la presenza di una sola donna premiata in mezzo a un mare di uomini: si trattava di Solaika Marrocco. Insomma, se c’è un trend positivo, bisogna fare di tutto affinché non si arresti.

Un problema di dibattito

Zuriñe García, chef del ristorante stellato Andra Mari Galdakao Galdakao, nei Paesi Baschi in Spagna / Foto AP

Gli spazi che riflettono sul tema delle chef donne vengono ancora accolti con diffidenza e pregiudizio. Si tratta di temi complessi tacciati talvolta di vittimismo e pretestuosità. Una delle obiezioni più frequenti è che guide e classifiche si “limitano” a fotografare il panorama ristorativo nella sua miglior essenza, come se il giudizio in ambito gastronomico fosse per natura neutro e privo di influenze patriarcali.

Una cosa su cui si può ragionare invece è che classifiche e premi diano visibilità a un certo tipo di cucina che, secondo un canone recente, è stata codificata come la migliore in assoluto. In buona sostanza non vi è alcun motivo oggettivo per cui i ristoranti premiati dalla Guida Michelin (o da 50 Best) siano in assoluto migliori di altri.

Entrambe però hanno saputo creare uno standard riconosciuto in tutto il mondo per l’alta gastronomia. Una gastronomia, a quanto pare, sfacciatamente maschile.

È infatti presumibile che le chef donne, le pasticciere, le fornaie là fuori siano in numero ben più corposo rispetto a quello emerso dai soli ristoranti Michelin e 50 Best. Allo stesso modo scorrendo i nomi delle pastry chef, proprietarie, maître e sous chef dei ristoranti premiati compaiono molte più donne di quelle che si trovano in posizioni apicali. Segno di un mestiere e di un settore che può essere tranquillamente abitato da donne ma che presenta asimmetrie gravi quando si tratta di leadership.

I limiti della classifica

Del resto l’essenza stessa della classifica sembra puntare a una competizione che non offre un giudizio inclusivo, ma frutto di parametri imperscrutabili, una sorta di numero chiuso in cui le barriere d’ingresso sono ancora più alte per chi non è uomo. Ma se nemmeno le donne riescono a entrare in questi circuiti, come possiamo assicurarci che le minoranze non siano invisibilizzate?

«La cucina è insensibile al razzismo più o meno quanto lo è al sessismo», ha scritto nel suo libro, Appunti di un giovane chef nero, Kwame Onwuachi. Un traguardo sarebbe evitare di raccontare i premi in modo assoluto: “il miglior chef del mondo” o il “miglior ristorante del mondo” sono in realtà narrazioni fittizie che discriminano chi rimane fuori dalla classifica, raccontando una porzione irrisoria della ristorazione mondiale. 

Cosa si può fare

Le strategie da mettere in campo per migliorare questa situazione, ricordando che la parità di genere è uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e non un pranzo di gala, sono diverse e tutte discutibili. Dal canto nostro urge porre attenzione al tema della rappresentanza mediatica offrendo a chef donne e uomini la stessa visibilità.

Il critico del Washington Post Tom Sietsema ha detto di essersi impegnato a recensire sempre più ristoranti gestiti da donne. Stesso discorso vale per gli eventi e le giurie, dove si vedono troppo spesso sfilate di uomini che in qualsiasi altro settore sarebbero ritenute ingiustificabili. 

In secondo luogo, ogni dibattito va affrontato in modo libero da pregiudizi: i dati parlano da anni di uno squilibrio che non può essere ignorato con un giro di spallucce. Il tema della sostenibilità (tra cui la parità di genere rientra, preme ricordarlo) ha dimostrato che su specifici temi sono previste deroghe ed evoluzioni repentine.

50 Best, così anche Michelin, ha introdotto un premio destinato alle migliori chef donne non privo di criticità che ha dimostrato che la strada dell’isolamento è percorribile, ma non è la migliore. 

In terzo luogo è importante sottolineare che le classifiche e i premi possono essere sempre messi in discussione e che non siamo costretti a subirne la pressione e il giudizio passivamente. In quarto luogo, è necessario affrontare il discorso senza slegarlo da analisi sistemiche: due anni di penuria di personale hanno portato alla luce situazioni lavorative precarie, contratti fasulli e stipendi ridicoli, la stessa cultura del lavoro tossica che ha impedito alle donne di trovare condizioni dignitose e premianti. Insomma se guide e classifiche sono disposte a rinunciare alle donne, vorrà dire che toccherà a noi a rinunciare a guide e classifiche.

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