Siccome li avrebbe seppelliti con la sua risata registrata all’ufficio brevetti, un eventuale coccodrillo sul «mondo che da oggi è un po’ più povero» e i «rip» da arnesi social, prima di iniziare a soccombere al male che lo ha consumato se l’era scritto da sé.

Una manciata di anni fa, senza clamori, uscì un libello dalle stamperie Rai-Eri “L’inviato non nasce per caso”, a firma Giampiero (in realtà Gian Piero) Galeazzi, in cui c’era tutto. C’era quello di Mara Venier, «’a Bistecco’, struca el boton!», ma c’era anche l’inviato cui Tito Stagno, il cronista dello sbarco sulla Luna, aveva consigliato la tecnica più efficace per le interviste a bordocampo: rincorrere il giocatore, praticare una specie di blocco da pallacanestro, costringerlo a sputare fuori un commento a caldo e, solo a quel punto, lasciarlo libero di giocare a pallone.

«E poi sperare che, in redazione, il pezzo sulla partita lo scrivesse Beppe Viola», perché Giampiero giocava a fare il caciarone, ma non lo era. Il giorno di Argentina-Inghilterra a Messico ’86, aveva fatto leva sul massaggiatore del Napoli, Carmando, e si era infilato negli spogliatoi dopo aver assistito al gol più brutto e più bello della storia del calcio, entrambi a firma Maradona. Che gli voleva bene, e aveva risposto così a una domanda molto… galeazziana: «Di che colore è il gol? Es azul, como el cielo de Naples!»

©Cosima Scavolini/Lapresse 24-10-2004 Roma Spettacolo Trasmissione Domenica In Nella foto Mara Venier con il piede ingessato tra Paolo Limiti Giampiero Galeazzi e Massimo Giletti

La caricatura di Galeazzi, l’alter ego Bisteccone, non è che fosse menzognera. Giampiero era davvero quello che si imbucava nelle cucine dei ristoranti per fare tête-à-tête con salmoni dalle dimensioni da banchetto matrimoniale, e uscirne con una boccia d’acqua «perché je ‘o dovemo da’ da nuota’ ar pesce, o no?».

O che brindava alla rivoluzione francese, accanto al tavolo di un attonito presidente Mitterrand, alla brasserie Le Pichet, mentre si smezzava una razza all’aglio con l’amico e sodale di telecronaca tennistica Adriano Panatta. Ben prima delle imitazioni vocali di Nicola Savino, il suo modo di raccontare lo sport aveva ispirato l’estro di Teo Teocoli, arrivato a presumere che lui e Adriano, stretti in una cabina del Roland Garros dolorosamente angusta per due pesi massimi, avessero montato un fornelletto da campo per sopravvivere alle sette ore di trasmissione quotidiana cuocendo uova e fagioli, proprio come Bud Spencer e Terence Hill.

«E questa è (bb)bella!», irrompeva nei salotti di mezza Italia quando la meravigliosa Gabriela Sabatini stremava di tagli e tocchetti Monica Seles, o Andre Agassi giocava il suo passante stretto di dritto «di polso, il colpo che preferisco. Dopo il whisky del ’69, ovviamente».

Ma, in un costante rimpallo tra romanesche genialità e trasandatezza, si era inventato un racconto adatto a tutti, colmo di passione autentica: il tennis, per esempio, con i suoi riti e codici per iniziati, per un giornalista estraneo alla intellighenzia era terra di conquista e di insidie.

LaPresse

Lui ebbe l’astuzia di creare un genere nazionalpopolare ma mai becero, talora basso ma non cialtrone, accessibile senza farsi necessariamente Bar Sport. Il suo modo di essere. Finché un giorno, dovendo lanciare per la diretta Rai la partita notturna del torneo di Roma, nuda e cruda, aveva avuto un’intuizione. Non lontano dal campo centrale c’era uno sponsor che radunava i amici e clienti intorno a un bicchiere e a un panino.

C’era tutto il sottobosco televisivo, Gassman, Tognazzi... «Mi venne in mente di collegarmi da là, dal piazzale del Foro – raccontò – ed era un azzardo. Il regista Mario Conti, però, mi diede retta: allungammo i cavi e presi a intervistare la gente. Chiedevo alla tipetta se je piaceva il tennis, stupidaggini, cose così. Sembrava La Grande Bellezza. Finì che molta gente comprava il biglietto del Foro non per le partite, ma per starsene nell’area vip». Si era inventato il tuttora esistente villaggio del Foro.

Alle Olimpiadi, le battute al minuto in acqua della canoa azzurra e i suoi «andiamo a vincere» erano diventati così famosi che c’è da avere il dubbio se fossero nati prima gli Abbagnale o la telecronaca degli Abbagnale.

Perché Galeazzi aveva quel talento che non si insegna, di capire lo sport (tutto lo sport, non solo la canoa dalla quale era arrivato) senza necessariamente conoscerlo a fondo, e di dire la cosa giusta al momento giusto - perché in diretta è sempre buona la prima. E così Paolino Canè, crollato a terra dopo uno scambio mozzafiato contro Wilander a Cagliari, nel replay si accasciò «per morire, per dieci secondi». E Ivan Lendl, beffato da un servizio da sotto giocato da un ragazzino a Parigi, fu vittima di «quel diavolo d’un Chang».

Stefano Colarieti

Giampiero Galeazzi è morto prima che un uomo italiano vincesse un altro torneo dello Slam dopo Panatta nel 1976 e proprio nelle ore in cui Matteo Berrettini, un altro romano, se la sta per giocare prima al Master di Torino, poi in Coppa Davis sugli stessi campi. L’unica finale di Davis vinta dall’Italia, lui e Guido Oddo dovettero commentarla dagli studi di Roma, perché il governo Andreotti aveva deciso di boicottare il regime di Pinochet non trasmettendo la diretta dal Cile. Non si può avere tutto.

Non gli piaceva dirlo, ma un po’ lo scocciava non aver pensato alla carriera, e non essersi preso una direzione di testata. Per farlo, ben prima della chiusura folkloristica al circo di Domenica In e annessi, avrebbe però dovuto mollare il marciapiede, la curva, la tribuna Tevere. Non era nelle cose. E soprattutto, oggi non saremmo stati qui a farci venire i lucciconi.

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