Torino 1966, non si affitta ai meridionali. Torino 2022, non si affitta ai musulmani.

«Non si affitta ai meridionali». Queste parole mi colpirono come una staffilata sul viso. C’era scritto a caratteri cubitali: «Affittasi». Sotto questa scritta c’era l’altra anch’essa ben visibile: «Non si affitta ai meridionali». Non volevo crederci. Eppure erano lì, quelle parole; si potevano leggere in stampatello in un cartello d’una via del centro di Torino. Era il 1966. Ma cartelli analoghi c’erano a Milano, a Genova e in altre città del nord.

Non c’era modo di evitare il cartello che non fu né il primo né il solo. Era affisso sulla facciata di un palazzo della via dove si fermava il tram che mi portava al mattino da casa all’università e mi riportava a casa dopo le lezioni. Arrivai a Torino proprio nel 1966 per iscrivermi all’università perché la mia terra, la Calabria, ne era sprovvista. Mi iscrissi alla facoltà di Lettere e filosofia la cui sede era a palazzo Campana (diventato famoso durante il ’68) nel cuore del centro storico, a due passi da via Roma e via Po. Università austera, antica, ricca di gloria. I professori erano inavvicinabili, vivevano in un mondo tutto loro che a me sembrava lontano, irraggiungibile; erano prestigiosi, autorevoli. Un nome per tutti: Norberto Bobbio, che incuteva rispetto e ammirazione.

Era la prima volta che mi capitava di leggere scritte come quelle. Ero urtato, di più, ero furibondo, arrabbiato come lo si può essere a 19 anni. Volevo reagire, ma non sapevo come. Poi mi venne un’idea che a tanti anni di distanza non so ancora come definire. Ci pensai su un po’ di giorni e decisi di attuarla. L’idea era di suonare il campanello e guardare in faccia l’autore di quell’avviso. Non ricordo cosa m’avesse spinto, se la curiosità o la voglia di dirgliene quattro a chiunque mi avesse aperto. Non mi ero preparato un discorsetto, o forse ne avevo immaginato tanti, ma nessuno mi aveva soddisfatto.

Giacca e cravatta

Un giorno, vestito di tutto punto con giacca e cravatta, suonai. Mi aprì una vecchia signora. Aveva una mantellina a protezione delle spalle incurvate dagli anni, i capelli bianchi e il volto rugoso ma sereno. Si sentì rassicurata dal vedere un giovane in giacca e cravatta. A quel tempo noi giovani vestivamo in tutt’altra maniera ed erano molti quelli che avevano i capelli lunghi e spesso anche la barba. I capelloni erano di moda e dilagavano dappertutto.

A casa dei miei avevo appreso che un vestito con giacca e cravatta poteva sempre tornare utile: per un matrimonio, un battesimo, un lutto o per un incontro importante. Dall’espressione della vecchina vidi subito come un vestito con giacca e cravatta potesse davvero fare miracoli.

Entrai in una sala che nei miei ricordi è scura, non so se perché era di pomeriggio inoltrato o se perché il sole non penetrava in quella stanza. Subito dovetti poggiare i piedi su dei pattini per non rigare il pavimento in un legno curato e trattato con la cera. Alle pareti numerosi quadri, sui mobili antichi una folla di ninnoli di varia grandezza si contendevano lo spazio.

D’istinto iniziai a lodare la stanza, il pavimento, i mobili, i ninnoli, i quadri, il soffitto alto. Dissi che era tutto perfetto, tutto magnifico. Parlai di getto, come se avessi paura di fermarmi. Una recita riuscita, ho sempre pensato. Quello che stavo dicendo non era per niente vero, ma la signora non se ne accorse. Lo si leggeva in faccia: era tutta deliziata e lusingata per le mie lodi, e con un gran sorriso mi fece accomodare su una bella poltrona d’un salotto che ricordo imponente.

Parlammo non so più quanto, e piacevolmente. Chiesi in affitto la stanza e accettai tutte le condizioni che mi pose, compresa l’ultima. La signora, con un po’ di rossore che colorò appena le sue guance, aggiunse che non avrei dovuto portare nessuna ragazza nella mia stanza. «Sa – precisò – questo è un appartamento onorato!». Per un giovane della mia età la clausola era gravosa, ma naturalmente l’accettai. A malincuore, feci capire. Eravamo d’accordo su tutto: prezzo, modalità di pagamento, orario di rientro la sera e altri dettagli.

Al momento di congedarmi – eravamo arrivati sull’uscio – alla signora che aveva uno sguardo sereno, tranquillo, rasserenato per l’inquilino molto virtuoso che stava per mettersi in casa dissi che c’era una questione che non avevamo affrontato. Le spuntò una ruga in fronte, mi chiese di cosa si trattasse e io risposi: «Vede, signora, io sono calabrese. E dunque meridionale».

La signora s’irrigidì, s’appoggiò allo stipite della porta, impallidì e non seppe dire niente. Era paralizzata, immobile, ammutolita come se avesse perso d’un tratto l’uso della parola. E io, spietato, aggiunsi: «E non ho neppure bisogno della sua stanza». Era vero. Avevo già una casa in affitto. Con un mezzo inchino e un sorriso appena accennato, a mo’ di sfottò, la lasciai sulla soglia di casa.

Non ho più dimenticato il pallore di quella faccia, la trasformazione avvenuta nel giro di pochi secondi. Chissà cosa s’era immaginato quella povera signora, quali fantasie avevano popolato la sua mente, e per quanto tempo! Quale terrore l’avesse presa al pensare che stava per mettersi in casa uno dei meridionali tanto odiati o solo disprezzati. Quali orribili mostri aveva creduto fossero i meridionali per scrivere una frase così chiara quanto orribile, crudele e ingiusta: non s’affitta ai meridionali.

La diffidenza uccide

Tutti questi ricordi sono riaffiorati leggendo la notizia che a Torino l’associazione Almaterra ha trovato ostacoli d’ogni tipo per far prendere in affitto case a donne con il velo oppure musulmane – «l’agenzia non affitta ai musulmani» è la scusa più ricorrente – oppure a chi veste in modo sgargiante, oppure ancora a chi ha un colore della pelle un po’ strano, indefinibile – come a dire: ma di che razza è? Eppure, tutte queste donne, molte delle quali giovani, parlano benissimo l’italiano persino con l’inflessione torinese che è inconfondibile. E lo fanno perché sono nate in Italia, figlie delle migrazioni degli anni Novanta del Novecento.

Al telefono quando le richieste sono fatte con l’accento torinese, i proprietari di case o delle agenzie sono ben felici di dichiarare la loro disponibilità ad affittare. Cambiano atteggiamento appena vedono con chi hanno a che fare. A quel punto predomina la diffidenza, la paura che è sempre cieca e irrazionale. Questi che oggi rifiutano gli affitti ai musulmani sono come la mia vecchina con la mantellina sulle spalle. Sono pieni di paure, di ansie, di sospetti, di timori infondati che non poggiano su nulla. Non conoscono, e perciò sono impauriti e diffidenti.

Tutti così a Torino nel 1966 e nel 2022? No, assolutamente no, per fortuna! Questa descritta fa parte di una minoranza che però sa far male senza neanche dare una coltellata o una pistolettata. A uccidere o a ferire basta la diffidenza, il sentire da parte loro un senso di superiorità (che non hanno), avvertire il disprezzo per il diverso, per chi non ha lo stesso colore della pelle o una cultura diversa.

Non li sfiora neanche l’idea che sono loro a essere diversi dalla maggioranza della popolazione che non è razzista; anzi!

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