Necessità e piacere. Il cibo ha sempre questa doppia valenza, ovunque si vada. A ogni angolo del mondo il mangiare è un forte antistress e una consolazione e, indubbiamente, alcuni piatti italiani sono tali nei cinque i continenti: due su tutti, pizza e pasta. Le neuroscienze parlano di “hot-spot edonistici”, sotto-regioni del nostro cervello che vengono stimolate da cibi zuccherati, grassi e anche salati.

La questione chimica non è la sola però. I comportamenti alimentari, secondo le scienze psicologiche, possono essere legati a ricordi positivi e felici. Così la dispensa del comfort food si riempie di cibi appaganti perché legati all’infanzia e all’accudimento. Difficile, in questo caso, pensare a un’insalata o a una mela. Almeno in Italia. E altrove? Per capirlo ci siamo fatti raccontare piatti e cibi di altri paesi. Sono talvolta storie di migrazione, per scelta o per necessità, dove il cucinare è utile per ricordare e per tramandare.

Dal Far East all’Italia

Sun Young Koo è di Daegu, Corea del Sud, città famosa per le mele che piacevano tanto alla regina Elisabetta. Poco più che ventenne arriva in Europa per studiare design e occuparsi di moda. Da venticinque è in Italia. Oggi lavora per una multinazionale del cibo come consulente e gira il paese per cooking class sulla cucina coreana. «Il primo posto del comfort food in Corea del Sud – racconta Sun – spetta al Toppokki, così famoso da essere il protagonista di un libro che ha venduto tantissimo (tradotto anche in italiano) Vorrei farla finta, ma anche mangiare toppokki dove una giovane ragazza che lavora per una casa editrice alterna momenti di apatia cronica alla voglia di uscire con gli amici per mangiare gli gnocchi di riso saltati in padella e conditi con salsa piccante, i toppokki appunto. Hanno forma cilindrica e si vendono soprattutto per strada perché farli a casa è complesso». 

Niraj Shah è indiano di Gujrat, arriva in Italia passando da Parigi dove conosce Stefania, diventata sua moglie. Oggi vivono a Novara. Accantonati gli studi in Finanza, Niraj racconta che da noi gli offrivano solo lavoro come lavapiatti e allora ha deciso di fare il libero professionista: «Durante la pandemia ho cominciato a fare corsi online di cucina indiana, spiegando soprattutto l’uso delle spezie. In tanti credono che le ricette indiane siano sempre piccanti, ma è tutta una questione di dosaggio». Il cuoco indiano tiene corsi in presenza al Lac, il Laboratorio di Antropologia del Cibo di Milano ideato dall’antropologa del cibo Giulia Ubaldi (ne incontreremo altri di cuochi del Laboratorio) e qui spiega come preparare due piatti comfort: «Il Kichri, lenticchie gialle con spezie e verdure e riso a cui si possono aggiungere yogurt o burro chiarificato e poi il Thepla, un pane che ha la forma di una piadina e viene fatto con la farina di miglio». 

La giapponese Mime Kataniwa arriva dalla città di Kawasaki. Da tempo vive a Firenze e ha una certa popolarità, essendo stata una delle concorrenti dell’undicesima edizione di Masterchef. Lavora come guida turistica e interprete e, quando può, si dedica alle cooking class: «Non insegno a fare sushi o uramaki, perché non appartengono alla nostra storia culinaria. Piuttosto per un giapponese è fondamentale consumare la zuppa di miso, la ricetta comfort per eccellenza: calda, avvolgente, corroborante. Un tempo, nelle promesse di matrimonio, si diceva vuoi farmi la zuppa di miso per tutta la vita?». Anche Wicky Priyan arriva da lontano, dallo Sri Lanka.

Oggi è tra gli chef più noti e bravi in fatto di cucina giapponese, tanto da aver conquistato una stella Michelin con il suo ristorante Wicky's a Milano. Del luogo di nascita porta poco nella sua cucina, ma un paio di piatti dell’infanzia li prepara nelle pause per sé e la brigata: «L’Hopper conosciuto anche come appam, è una specie di pancake ma a forma di scodella, fatto con farina di cocco e latte e che si riempie con ciò che si preferisce. Per strada va forte quello con le uova. L’altro street food noto è il Kottu Roti, il cibo “che fa ballare” perché i titolari dei baracchini maneggiano a grande velocità le palette che servono per sminuzzare gli ingredienti. Si tratta di pane fermentato senza lievito che viene mescolato a vari prodotti».

La farina di mais, le tradizioni preispaniche e le ninna nanna in Sudamerica

Più messicano o italiano? È una domanda che Gabriel Renteria, nato a Milano, ma originario di Chihuahua, nella parte nord del Messico, si fa di tanto in tanto. La cucina autentica messicana, però, ha dovuto impararla da sé, perché quella proposta in Italia è spesso la Tex-Mex con un profluvio di tacos e di nachos e poco altro: «Io sono partito dalla tortilla fatta con la farina di mais nixtamalizzata, una tecnica antica preispanica che consiste nel bollire i chicchi di mais, precedentemente essiccati, in una soluzione di acqua e calce. Così ho recuperato l’odore delle tortillas della nonna. Quando il messicano ha un buco allo stomaco prende una tortilla, ci mette su un pizzico di sale, due gocce di lime, l’arrotola e la mangia». 

Maria Nunez aveva, insieme al marito, una panetteria-cioccolateria a Valencia, in Venezuela. La crisi politica ed economica che ha colpito il paese a partire dal 2013 ha portato la coppia in Italia. Una volta a Milano Maria si impegna nel progetto Cuoche a Colori e poi con l’associazione Chico Mendes per preparare cene a domicilio e far conoscere la cucina venezuelana: «All’inizio ero arrabbiata con il mio paese, ci aveva tolto tutto. La cucina mi ha dato modo di riavvicinarmi al Venezuela».

La cuoca l’ha fatto attraverso le arepas, focaccine fatte con farina di mais che si possono imbottire come si vuole: «Sono il primo pasto dello svezzamento - ricorda Maria – e sono presenti anche in tante ninna nanna». Del dolce invece ci racconta Natanael Peguero, un trentenne di Santo Domingo, impegnato in sala in un rinomato ristorante di Milano e cuoco caraibico per il Lac. Andato via a nove anni, Nael è tornato sull’isola per la prima volta l’anno scorso e lì si è fatto spiegare un po’ di ricette dallo zio materno: «La cosa più semplice ma anche più buona è l’arroz con leche, il riso cotto nel latte con l’aggiunta di vaniglia, ma di confortevole c’è anche il morir soñando, una bevanda a base di latte, succo di arancia, vaniglia e ghiaccio tritato. La bevono tutti, anche i bambini».

L’Africa del futuro

Lo si sente dire da qualche anno, la prossima moda in fatto di tendenze culinarie arriverà dall’Africa. Cesare Battisti lo ha dimostrato con Marcel Boum, il locale milanese di Gaia Trussardi dedicato allo street food africano. Lo chef del ristorante Ratanà si occupa della riformulazione delle ricette tradizionali con un gusto un po’ italiano: «Non tutti sanno che è una cucina prevalentemente sana, ha pochissima carne di manzo e l’Africa è il primo produttore di avocado e di miglio. Il mio comfort food africano è lo Yassa, uno stufato di pollo, cipolle e curry accompagnato da riso.

Da Marcel Boum vengono anche tanti africani di seconda generazione che vogliono conoscere la cucina delle loro origini». Il piatto citato da Battisti è senegalese e dal Senegal arriva Astou Ndiaye, assistente di tutti i cuochi del Lac a Milano. Il suo ricordo è legato alle colazioni che faceva a Dakar: «Sono le frittelle al cocco, forse di influenza francese, chiamati Beignets au coco, serviti a colazione o a merenda insieme a una tazza di tè alla menta, di Karkadè o di succo allo zenzero (Jus de gingembre)».

Oltre i cliché 

Altra ristoratrice “milanese” è Vasiliki Pierrakea che, con il suo ristorante Vasiliki Kouzina, ha portato, nel capoluogo lombardo, l’autentica cucina greca. Originaria di Kalamata – posto famoso per le olive nere – aveva un nonno che era una vera istituzione in fatto di souvalki e gyros pita: «Ma io - spiega Vasiliki – preferisco i legumi, come una zuppa di lenticchie e sardine, oppure una merenda con bottarga del Peloponneso, formaggio e fichi su una fetta di pane». 

A cavallo tra Europa e Asia c’è la cucina di Shaké Pambakian, cuoca armena che racconta, attraverso piatti e aneddoti, il senso gastronomico della diaspora di un popolo. L’Armenia che lei impiatta è la storia di una terra perduta: «Scelgo due piatti, uno salato, il Misov smpug, melanzane cotto al forno e ripiene di carne trita, pomodoro e cipolla e l’altro dolce, il zvazegh, il pane immerso nel latte e nell’uovo, fritto e intinto nello sciroppo di zucchero e cannella. Una ricetta che ho riportato sulle tavole del Capodanno, perché se tutti i giorni consumiamo i piatti dei paesi che ci hanno accolto, nelle feste cuciniamo armeno».

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