Le recenti polemiche sulla legge che dovrà regolamentare l’agricoltura biologica in Italia – sulla «scientificità» dell’agricoltura biodinamica – hanno finito per oscurare il punto principale: che bisognerebbe fare di tutto per incentivare l’agricoltura «biologica» (in inglese si dice «organica», termine più specifico). Perché l’agricoltura che possiamo chiamare «convenzionale» – quella meccanizzata, industrializzata e produttivistica attuale – contribuisce al disastro ecologico, al degrado degli eco-sistemi e, in ultima analisi, al cambiamento climatico, al contrario di quella biologica.

Sfamare il mondo?

Uno degli argomenti che viene spesso citato a favore dell’agricoltura convenzionale è che essa è l’unica che potrà «sfamare il mondo» mentre quella biologica è «cosa da ricchi», per agricoltori che possono permettersi di produrre meno con alti costi e vendere prodotti a prezzi più alti per una fascia di consumatori, magari «responsabili» dal punto di vista ambientale, ma benestanti.

In realtà, ci si dovrebbe chiedere perché mai l’agricoltura convenzionale non sia (ancora) riuscita a sfamare il mondo. L’ultimo rapporto della FAO dice che nel 2019 il numero di persone che soffrono la fame e la denutrizione ha raggiunto i 690 milioni e che questo numero è costantemente aumentato dal 2014 (in certi Paesi, fino a un quinto della popolazione). La malnutrizione – la combinazione di diete povere di elementi nutrizionali e scarne – è un problema (fino a tre miliardi di persone ne soffrono, in gran parte bambini).

Tutto questo non accade perché «non c’è abbastanza cibo», ma perché il troppo cibo che c’è (parte del quale viene gettato via, invenduto o inutilizzato) viene prodotto e distribuito secondo logiche di mercato che non guardano a «dove sta il bisogno» ma dove va il profitto.

L’agricoltura «produttiva» – meccanizzata, finalizzata all’agri-business industriale – ha spazzato via da lungo tempo l’agricoltura «povera» che avrebbe potuto, se sostenuta, garantire una via sana e redditizia ad un tempo a milioni di contadini che hanno dovuto invece subire le logiche del mercato finendo su lastrico. Questo non è un argomento banalmente anti-capitalistico. Il contadino indiano che deve acquistare sementi ad un prezzo «di mercato» perché più favorevole (quello delle sementi Monsanto) piuttosto che quelle delle varietà locali, magari più costose ma adatte ai terreni e alle tecniche in uso, sarà costretto anche a adottare pesticidi e fertilizzanti se vuole avere un raccolto decente e, anche così, non ce la farà. Tecniche di produzione tradizionali avrebbero potuto garantirgli, invece, un raccolto magari modesto ma meno costoso e quindi redditizio. Con ciò garantendogli anche la sopravvivenza (non è un caso che la fame imperversi nelle zone rurali del mondo, più che in quelle urbane).

L’agricoltura convenzionale ha fallito di nutrire il mondo, limitata com’è stata dal perseguimento della sola logica capitalistica, sostituendo (eliminando) un’agricoltura di sussistenza che, se adeguatamente supportata, potrebbe invece offrire una via d’uscita per miliardi di persone. Come? Con l’agricoltura biologica. Con l’uso di letame e concimi naturali, con l’uso di sementi auto-selezionate e coltivazioni «naturali». Aiutata da una zootecnia, anche in questo caso, non «industriale» ma «a misura di azienda contadina». Per i mercati locali.

Più efficiente?

L’altro argomento che viene usato a favore dell’agricoltura convenzionale è quello delle rese, che sarebbero migliori di quelli ottenibile con agricoltura biologica. Ma una maggiore resa, ottenuta al prezzo di una maggiore «debolezza» delle piante (che richiedono più fertilizzanti e antiparassitari), non è un vantaggio. Milioni di ettari sottratti alle foreste per produrre milioni di quintali di prodotti agricoli ad alta resa non sono «meglio». Perché avvantaggiano solo poche aziende mentre i contadini non sopravvivono sui loro terreni e devono approvvigionarsi sul mercato, a svantaggio di molti. Meno terre coltivate da più persone equivarrebbero allo stesso prodotto (più sano) consentendo ai più di sopravvivere. Con un molto minore impatto ambientale.

Le logiche di mercato non aiutano né chi produce né i consumatori. Al di là delle nostre abitudini alimentari, di cui pur si dovrà parlare, è l’aver perseguito quella strada che ha portato ad un mondo dove si produce troppo cibo eppur si muore di fame. Con l’aggiunta di un danno ambientale che è sempre più evidente.

Per noi che viviamo nella parte del mondo dove il cibo non è un problema, ma lo è sempre di più la sua qualità, il biologico non dovrebbe più essere un’opzione ma una necessità. Iniziamo dai nostri terreni, dalle nostre valli, dalle nostre coltivazioni e dai nostri allevamenti. L’ambiente è degradato nelle sue molte componenti – la qualità dell’aria e delle acque, le precipitazioni, i suoli.

Gli ecosistemi, anche da noi, soffrono della perdita di biodiversità cui l’agricoltura convenzionale contribuisce grandemente (accanto alla cementificazione e allo scarico nelle falde di ogni tipo di inquinante). E la situazione non fa che peggiorare a causa della crisi che sta attraversando l’ecosistema delle api e degli altri insetti impollinatori dai quali dipende la maggior parte delle coltivazioni e, quindi, del cibo che mangiamo.

Gli apicoltori e gli entomologi sono anni che lanciano l’allarme. Owen Gaffney, co-fondatore del Future Earth Media Lab, scrive che dall’impollinazione da parte di api, farfalle e altri animali dipende quasi il 90 per cento delle specie di piante selvatiche e oltre il 75 per cento delle colture. Dal 1961, il volume della produzione agricola attribuibile agli impollinatori è aumentato del 300 per cento. Tuttavia, con vaste e crescenti porzioni di terra destinate alla monocoltura, come nell’agricoltura convenzionale, diminuisce la produzione per ettaro di molte colture e si impoverisce l’habitat degli impollinatori. E così, le specie di api si riducono a un ritmo allarmante.

Ascoltare la natura

Siamo incapaci di dare ascolto alla voce della natura. Solo ritrovando il filo che lega insieme le diversità delle colture agricole e la diversità biologica, in uno sviluppo armonico, si potranno avere ecosistemi sani e diversificati che formano la biosfera. Ad affrontare queste sfide si sta preparando una nuova generazione imprenditoriale, che va favorita. Agricoltura e sviluppo armonico sono legati con un doppio filo intrecciato dall'innovazione. Bio-agricoltura e agricoltura «verde» dischiudono promettenti opportunità imprenditoriali: miglior utilizzo delle risorse naturali, creazione di buoni posti di lavoro, sicurezza alimentare e riduzione dell'impronta ecologica con positivi risvolti sulla biodiversità. Ne guadagnerebbe anche la produttività in agricoltura (quella convenzionale, tra l’altro, oggi non cresce più di tanto). Più offerta e più innovazione agiscono da moltiplicatore della produttività, come afferma persino il Rapporto McKinsey sulla Rivoluzione delle risorse. A tecnologie invariate, i miglioramenti di produttività delle risorse sarebbero sufficienti a soddisfare circa il 30% della domanda al 2030.

Migliori prodotti – «frutta e verdura che hanno sapore» – orienteranno naturalmente la domanda di prodotti alimentari. Alle maggiori opportunità offerte da innovazioni che fanno compiere un salto di qualità al nostro consumo alimentare, molto può contribuire una comunità di «start-up» che può nutrire con le innovazioni realizzate l'ecosistema imprenditoriale agro-alimentare, una comunità che può far leva sui giovani laureati e dottorati o anche solo diplomati, propensi a portare sul mercato, fondando loro imprese, scoperte, invenzioni e tecnologie innovative coltivate nei laboratori di ricerca. Una generazione bio-digitale che ha motivazioni e intenzioni imprenditoriali sviluppate negli spazi relazionali e tecnologici della bio-agricoltura esiste già, ma va sostenuta, perché l'innovazione verde può trasformare profondamente il mondo agricolo.

Il nesso tra cibo e natura è stato da noi snaturato. Riascoltiamo la voce della natura con l’agricoltura biologica, ridando spazio alle api e agli impollinatori naturali e dando forza agli impollinatori di innovazione.

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